giovedì 30 marzo 2017

MANZI USA CONTRO ROQUEFORT FRANCESE: LE SANZIONI IPOTIZZATE DA TRUMP




Un  gustoso bocconcino di morbido Roquefort su una bella fetta di pane caldo, magari innaffiato da un fresco bicchiere di acqua minerale Perrier? Bene, a breve, per i cittadini americani, potrebbe diventare un autentico miraggio, riservato ai  pochi e  danarosi privilegiati che potranno permettersi i costi esorbitanti di tale rara e pregiata merce, mentre tutti gli altri dovranno rassegnarsi  alla borsa nera oppure a ruminare  cheddar e sottilette,  abbeverandosi mestamente  dal rubinetto di casa  o comunque con acque minerali molto meno blasonate della raffinata acqua della fonte francese. 
Questo infatti è ciò che potrebbe succedere se Trump e la sua amministrazione decidessero di applicare i ventilati dazi di ritorsione contro alcuni prodotti europei, in seguito alla mancata apertura dell’Unione Europea verso la carne di manzo  americana non trattata con ormoni,  come invece era stato a suo tempo  stabilito da un accordo del 2009, così come riportato dal Wall Street Journal
In seguito a questa mancata apertura europea verso i manzi americani, gli  USA stanno infatti studiando di introdurre a scopo di ritorsione una serie di dazi del modico valore del 100% su alcuni prodotti europei, che evidentemente considerano particolarmente graditi ai palati americani, come appunto il Roquefort e l’acqua minerale Perrier, in compagnia degli scooter Vespa prodotti dalla Piaggio: come ad ammonire  l'Europa che se  ancora ha  l' intenzione di vendere a un prezzo accessibile a tutti gli americani l’immmagine della scampagnata su due ruote  tra i prati statunitensi  con un panino di gorgonzola e un bottiglietta di sana acqua francese nel cestino, beh, se lo può  pure scordare.  Almeno fino a che noi, europei infingardi, non ci decideremo a esigere, sulle nostre tavole, bistecche e costate alte almeno tre dita e da gustare con frequenza come minimo giornaliera, stimolandone così le importazioni.   Insomma, gli USA richiamano l’Europa all’ordine e al rispetto degli accordi, riservandosi quindi, in caso di orecchie da mercante, di rendere il classico pan per focaccia. Anzi, in questo caso, all’inosservante Europa verrà reso  manzo americano  per Roquefort francese. Non fa una piega.

mercoledì 29 marzo 2017

REPORT, SOTTO LE STELLE: NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE DELL'ALTA RISTORAZIONE






Ok, forse la puntata dell'altra sera di Report, dal titolo Sotto le Stelle, e andata in onda su RaiTre,  non ha scoperchiato tutto 'sto gran vaso di Pandora, in merito a presunti intrallazzi, incroci di interesse e pastette varie tra il mondo degli chef stellati e quello della critica gastronomica: da mo' Valerio Massimo Visintin denuncia in ogni dove il conflitto di interessi che, ormai sdoganato dal mondo della politica, avrebbe invaso  completamente anche il mondo dell'alta ristorazione,  con inopportune frequentazioni tra giudice - il critico gastronomico - e giudicato - lo chef, in questo caso. Quindi, per chi un minimo sia interessato al mondo del cibo, della ristorazione e a tutto il baraccone che gli gira intorno, nulla di nuovo: un po' come il mondo del calcio, dello spettacolo, della politica e di ogni altra attività umana. Cioè un brodo primordiale di interessi, accordi, alleanze.
Dall'altro lato però  bisogna ricordare che esiste ancora un mondo di puri, di candidi, individui che ancora  pensavano che il mondo della ristorazione, non si sa perchè,  dovesse essere esente dagli umani vizi e bieche consuetudini. Per loro, più che altro, scoprire che anche gli chef stellati accettano formaggio gratis in cambio di visibilità per il prodotto offerto è stato magari un colpo al cuore, così come anche il sentire il critico mascherato che denuncia accordi e intese sottobanco.
Quindi, appurato che di nuovo sotto il sole, o meglio sotto le stelle Michelin, in realtà nella puntata dell'altra sera  c’era ben poco, bisogna  comunque riconoscere che Report ha portato all'attenzione del grande pubblico una questione rilevante, e questo è indubbio; ma, a parte questo,  consideriamo e valutiamo la puntata per quello  che è stata: spettacolo. Puro spettacolo. 
E in questo senso, è stata un vero successo.

FILIPPO LA MANTIA
E di questo spettacolo stellato una delle parti più succose è stato di certo l’intervento dello chef, anzi, del cuoco Filippo La Mantia: con quella sua aria da impunito, con quella sua faccia di scazzo, con la  bella parlata siciliana corredata da regolamenteri intercalari a base di “minchia” ed erre arrotate,  si poneva subito come il cavaliere senza macchia, il trasparente cuoco contrapposto al supponente chef,  l’antagonista sanguigno e verace cha batteva a suon di pasta al forno e polpette gli alteri fusilli impiattati a uno a uno (a uno a uno!) dall’algido e  asettico Berton. Come non volergli bene? Pur crogiolandosi, con tutta evidenza, nel ruolo dell’outsider, di quello che si vanta del fatto di non avere nessuna stella, il nostro ha detto comunque delle cose sacrosante,  di quelle che a sentirle fa bene al cuore. Ha detto che “oggi il cuoco è stato chiamato a ricoprire ruoli a cui non siamo preparati, a cui io non sono preparato”. Ha raccontato che una sera, nel suo locale, si è svolto un evento del World Food Program, durante il quale  era stato  anche invitato a parlare, ma che si è praticamente rifiutato :  “Per me parlare qua è veramente imbarazzante, quindi vi racconterò il menù della serata, dopodiché arrivederci e grazie”, ha detto La Mantia all’evento.  E così ha fatto. “ Che mi mettevo a dire, scusami?”, chiede l'oste all'intervistatore.
Bravo, ruspante e genuino, La Mantia. E sì, anche un po’ volpino,  ma con quella faccia da schiaffi gli si perdona tutto.

FEDERICO FRANCESCO FERRERO
Ma per un  La Mantia che  pare avere un vero talento naturale nell’accaparrarsi consensi e bucare lo schermo, ecco che subito  appare un Federico Francesco Ferrero che pare messo lì a bella posta per far sfogare ai telespettatori tutti i più bassi istinti accumulati durante la prima giornata di lavoro della settimana. Anche perché lui, oltre all’aspetto leggermente saccente e supponente, ci mette pure del suo: il Grana Padana non è un prodotto straordinario”, sentenzia il nostro da dietro i suoi occhiali da nerd.
E con tale autorevolezza che come minimo uno si aspetterebbe un dettagliato teorema in merito, una disquisizione scientifica sul perché e percome il nostrano Grana sarebbe un prodotto dozzinale o mediocre,  anche per potere poi andare a stringere la mano a Charlie di Beautiful e riconoscere che sì, aveva ragione lui a non tollerare, per il suoi piatti, dell' ordinario Grana al posto del più blasonato Parmigiano. E invece no. Il buon Ferrero ci molla lì senza dirci  manco crepa, e soprattutto senza spiegarci la sua uscita sul Grana. Ma per non attirarsi ire e lapidazioni a base di forme di Grana da parte dei produttori, lascia poi cadere una sentenza che sa di corner dell’ultim’ora: “ma anche nel  Parmigiano ci sono enormi differenze”. Insomma, ormai Ferrero è già imprigionato nel ruolo di Bastian Contrario, e fa fatica a uscirne, è evidente.

BERTON, VIZZARI E…
Per il resto, il programma ha calcato i soliti temi caldi del cibo: gli sponsor (orrore!), in questo caso il Grana (sempre lui tra i piedi, sta esclamando Ferrero) che “mette a disposizione  un po’ di formaggio” per gli chef stellati, ovvero regala forme di formaggio in cambio di visibilità, e Berton che abbocca all’amo ammettendo che “ho deciso di scegliere Grana Padano per una questione mia personale di gusto. È anche perché è un prodotto che trovo adatto alla mia cucina, perché è un’azienda che è sensibile alla qualità, quindi lavora con degli chef che fanno qualità”
Berton, caro, il tuo lessico è ineccepibile , la tua padronanza della lingua italica fa faville così come i tuoi fusilli impiattati ad uno a uno, ma nella sostanza non puoi, non puoi dire al mondo queste cose dopo che nel servizio è appena andato in onda il responsabile di Grana Padano che dice che ti regala il formaggio in cambio di visiblità, accidenti! Ok, forse non lo sapevi, forse chi ha montato il servizio ti ha tirato un tiro mancino, ma con  le tue parole dopo quelle del rappresentante del Grana Padano ci fai veramente  la figura – a essere gentili -  dell’ingenuo, pur non avendone le fattezze esteriori,  oltretutto con il grazioso corredo di sponsor blasonati e auto da sogno .

NIENTE MASTERCHEF
E comunque, andando oltre, in una inchiesta composta al 90% da spettacolo, non poteva certo mancare la Trimurti, ora in realtà quadrimurti, ossia Cracco, Bastianich, Cannavacciuolo e Barbieri, gli implacabili giudici di Masterchef.  Peccato che tutta la Trimurti  compatta abbia detto “no, grazie”, evidentemente   subdorando -  le vecchie volpi - che la partecipazione all’evento televisivo forse non sarebbe stata così proficua  per la propria immagine e declinando il cortese invito. Ma Report ce li ha ficcati dentro lo stesso, fosse anche solo per dire che  quegli stellati lì, no, non ci sarebbero stati, i vili.

E poi si continua, con le acque della Nestlè – la bieca!-  presenti in ogni evento di Food e soprattutto ai World’s 50 Best,  con Vizzari che gozzovigliando in beata grazia da Berton una lasagna con crema di Parmigiano OOOPS, DI GRANA PADANO fornito gratis sentenzia con fare dotto che è “sempre meglio che lavorare in miniera” (Berton, non inquadrato, ringrazia) e lo scandalo dei poveri giovani martirizzati nella cucine degli chef.

Certo, cose risapute, o comunque immaginabili. A Report va comunque il merito di aver portato la questione a conoscenza anche di quegli ultimi "puri" che consideravano il mondo della ristorazione un universo ancora integro, senza macchia e senza peccato. Che ora, quando in una preparazione troveranno decantato, che so, il taleggio invece del RAschera, sapranno che non sempre  è questione di "equilibrio del piatto", ma molto più spesso, solo di sponsor.

martedì 28 marzo 2017

LA BIRRA CON ACQUA DI SCARICO DEI BAGNI E' FINALMENTE UNA REALTA'



A voler esser brutali  potremmo chiamarla birra fatta  con acqua di fogna.
 A voler essere fini potremmo chiamarla birra prodotta con acqua reflua di scarico.
Ma la realtà è che la sostanza non cambia: sempre di birra fatta con acqua di scarico, si tratta. Sì, acqua di scarico: proveniente cioè da lavandini, docce, vasche e, sì, anche dai water.
Questa è la nuova frontiera dell’ecologia, questa la nuova frontiera del riciclo esasperato, del recupero portato alla sua massima espressione, vale a dire quella dei naufraghi costretti a bersi la loro stessa urina sperduti in mezzo all’oceano.  Ora, quella stessa sorte pare toccare anche a noi, naufraghi metropolitani attenti all’ambiente  e contro ogni spreco, soprattutto dell’acqua.
Ed è  per questo che un’azienda produttrice di birra degli Stati Uniti, la Stone Brewing di San Diego,  ha da poco messo in commercio la sua  “Full Circle Pale Ale”, così come riportato da Repubblica. 
La birra è stata presentata nel corso di un evento nella cittadina di Liberty Station ed ha subito riscontrato  un successo inaspettato. IL senior manager dell’azienda ha dichiarato che sì, all’inizio era  un po’ refrattario al pensiero di usare acqua del water per la produzione di birra,  ma alla fine ha voluto tentare l’azzardo creando, a suo dire “una tra le migliori tre  Pale Ale  che ho creato negli anni”.  Ed anche il sindaco della città ha insistito oltremodo per assaggiare la rivoluzionaria birra, trovandola anche lui squisita. Certo, bisogna precisare che da anni la città di San Diego  soffre di costante siccità,  e la città,  che non riesce a far fronte al consumo di acqua, è costretta ad importarne bel l’85% da altri Stati americani. Fattore che va di certo ad influire sul favore con cui tutte le iniziative volte al risparmio ed al recupero di acqua sono viste. Ma non sono solo istituzioni ed autorità ad esser stati entusiasti della singolare birra: anche molti normali cittadini hanno molto gradito la bevanda per cui, oltre alle acque di scarico, sono anche stati selezionati pregiati luppoli Riwaka e Wai-iti della Nuova Zelanda, nonché malto di frumento arricchito con segale maltata.
E i commenti sono stati entusiastici: chi lodava  i sentori di caramello, chi quelli dei frutti tropicali  e chi quelli del luppolo.
Ma, ne siamo certi, i commenti più graditi, in questo caso, sono stati altri, e cioè quelli di coloro che hanno trovato il gusto della nuova birra “molto pulito”.
Al momento, disgraziatamente, la birra da toilette non è ancora in vendita,  ma la Stone Brewing confida di poterla mettere in vendita in tempi brevissimi.

Aspettiamo tutti trepidanti, mentre nel frattempo saremo costretti a dissetarci con della normale, ordinaria birra prodotta con altrettanto ordinaria acqua, non (ancora) di scarico.  
Godiamocela, finchè possiamo.

Crediti: Repubblica. Immagini: Pure Water San Diego

lunedì 27 marzo 2017

LA PIZZA ROMANA IN TEGLIA NON E' BUONA!




La pizza romana in teglia non è buona! Qualcuno doveva prendersi la responsabilità di dirlo forte e chiaro, e quel qualcuno sono io! Non è "scriocchiarella", è dura, è grecca, ti tira via i denti e la salva solo la cornucopia di ingredienti peccaminosi che ci ficcano sopra! Viva la focaccia genovese, viva la pizza al padellino di Torino, abbasso la pizza romana in teglia! E basta!

E  se anche voi siete stanchi di sentirvi cantare in tutte le lingue che la pizza romana in teglia è una pizza "gourmet",  fate sentire il vostro grido forte e chiaro: noi, la focaccia genovese non la tradiremo mai!  
Lei non ha bisogno di badilate di ingredienti buttati sopra alla cz, non ha bisogno di una  betoniera in bocca per essere masticata. Con il suo bel lievito di birra, sta lì, semplice, morbida, con il suoi begli occhi bianchi di olio e acqua, nuda cruda e zingarella, senza nemmeno il lievito madre (e per fortuna). Ribelliamoci alla dittatura di questa parvenu dura e altera. Uniti, ce la faremo! Avanti, focaccia!


venerdì 24 marzo 2017

LA PIZZA AL PADELLINO DI TORINO NON TEME RIVALI!








Torino è cambiata.
Bene, direte voi, e a noi...? 
Ma soprattutto, cosa c'entra questo con la pizza al padellino? Ma, ancora più importante...cosa diavolo è la pizza al padellino???
E qui mi riallaccio a Torino. 
A Torino che è cambiata. In peggio -  secondo me, in tema di pizze -  sin  dagli  anni '70, dall'avvento, cioè, del'usurpatrice, della pizza al mattone, meglio conosciuta come 'la napoletana'
Per i più, ai giorni nostri, la napoletana è ormai la pizza per antonomasia, l'unica, verace, insostituibile e inconfondibile.
Ma non è sempre stato così. 
O meglio, non è sempre stato così a Torino.
Fino all'inizio degli anni '70, quando io ero ancora  "fanciullina",  la pizza al mattone a Torino manco si sapeva che cosa fosse. Nè la pizza nè il mattone. C'era solo la pizza. Al padellino, naturalmente. O al tegamino, come dir si voglia.
Non c'erano mega pizzerie come ora, anzi, non c'erano nemmeno tantissime pizzerie, e la pizza (al padellino) si comprava -  e il più delle volte si portava a casa -  in piccole pizzerie che oggi potrebbero somigliare a delle rosticcerie,  semplici, senza pretese, alla buona, dove si preparavano solo pizze al padellino e farinata. 
E a Torino l'abbinata è ancora così: dove c'è la pizza al padellino, fanno anche la farinata. Dove fanno la pizza al mattone, no (meno cento punti già solo per questo).
Ma veniamo al dunque:  che cos'è, allora,  'sta pizza al padellino, anzi,  che cosa NON è. 
NON E' una pizza al taglio di forma rotonda in teglia singola altrettanto rotonda. Non è menchemeno una pizza tipo fornaiobarrapanettiere ma calda. E'..la pizza! 
Alta, soffice, con un diametro che non supera mai i venti, venticinque centimetri, cosparsa di generoso formaggio, penosa ma nello stesso tempo pizzosa.
Cotta in umilissimi forni spesso elettrici e non a legna (sì e sì!), non preparata al momento ma solo cotta al momento, prelevata, insieme a tutto il padellino, solamente al momento di cuocerla. 
Ricordo con vero affetto come ce la davano da portar via, a me e mia nonna, piegata in due (ebbene sì!), in quella carta bianca oleata da dove sprigionava un odore, un profumo di formaggio colante, mentre mia nonna si lamentava che da 450 lire era passata a 500 ed era una vergogna!
E' lei, la mia pizza, mia e di tutti  noi vecchi ragazzi torinesi. 
E così è stato appunto fino  ai primi anni '70, quando cominciarono a venire fuori le pizzerie con pizza al mattone: larga, una padellata di pizza, sottile, che più sottile è meglio è, dura, coriacea, che se non la mangi entro 10 minuti diventa una suola da scarpe (tranne rare eccezioni), importata nientepopodimeno che  dalla patria della pizza, alias Napoli. 
E come poteva una umile pizza al padellino, senza natali blasonati, sopravvivere a cotanta nobilitate? 
Fatto sta che, piano piano, le vecchie pizzerie al padellino, scomparvero, sparirono, si estinsero, come gli australopitechi. 
Divennero poche e impaurite, quasi vergognose di esistere,  e noi, nostalgici della vecchia pizza al padellino e mai ricredutici, diventammo tutti pezzi da museo, trogloditi che la pizza manco sanno dove sta di casa e che con le papille gustative degne di uno struzzo;  dei paria, soli, meschini e abbandonati, come la pizza al padellino. 
Ma Torino è cambiata.
In seguito alle
In seguito alle olimpiadi della neve del 2006, Torino va. Vende. Arrivano turisti. Mangiano bagna caoda (leggi bagna cauda). Bolliti misti. Bagnetto verde. E...toh, guarda, c'è una nuova pizzeria al padellino..toh, un'altra... ma che è, tutte 'ste pizze al padellino, ma chi è, 'sta pizza al padellino??
E' un prodotto di Torino, della Torino turistica, e vende, e quindi ben venga il turismo. E lunga vita alla pizza al padellino.

E  per fortuna, ancora sopravvivono a Torino alcune pizzerie storiche come il "Cit ma bon" (leggi Cit ma Bun, Piccolo ma buono) in Corso Casale, o come Michele in piazza Vittorio, come Cecchi, come Dessì, Miky e qualche altro intrepido. E assieme alle vecchie pizzerie, ci sono quelle nuove, una per tutte Il Padellino di Corso Vinzaglio, e tante altre che stanno a testimoniare che la pizza al padellino, con il suo cuore morbido, con la sua crosta bruciacchiata, con il suo ripieno abbondante non ha nulla da invidiare a pizze napoletane, romane o  liguri. La pizza al padellino di Torino è unica.  E non teme rivali!

(Testi da  un mio vecchio post di alcuni anni fa; foto pizza de Il Padellino)






IKEA, IL NUOVO SPOT E E LA SMANIA DI FOTOGRAFARE IL CIBO





Siamo nel 1700, a occhio e croce.
Nella lussuosa sala da pranzo di un’aristocratica dimora, alcuni servitori in  parrucca e livrea portano le  portate del pranzo ai commensali. 
Una bambina prende una mela, cercando di portarsela alla bocca, ma il padre la blocca all’istante: prima il pasto deve essere “fotografato”, ma con i metodi del tempo, in cui telefoni e macchine fotografiche digitali erano ancora ben al di là da venire. Entra quindi in sala un trafelato pittore, che a tempo di record immortala le sontuose portate.
I commensali, costituiti dalla famiglia del signorotto, intanto son lì che aspettano rassegnati di poter pranzare. Ma dovranno ancora aspettare parecchio:  una volta terminato il quadro, infatti, inizia la parte più importante del rito: occorre condividere, occorre che tutti vedano la maestria con cui è stato preparato il cibo e l’abilità tecnica del fotografo di turno, vale a dire il pittore,  per soddisfare la vanagloria del padrone di casa con consensi e approvazione, vale a dire con gli omologhi degli attuali like e faccine sorridenti.
Già, ma nel ‘700 Facebook non c’era ancora, Mark Zuckerberg era ancora lì a giocare a Super Mario in un’altra dimensione e manco Instagram bazzicava per quei remoti lidi. E allora, come si fa? Semplice: gli affannati servitori si premurano di prendere il quadro e  caricarlo lesti lesti in carrozza, per  sottoporlo alla più vasta porzione di popolazione raggiungibile e ottenere l’agognato like. Il quadro viene quindi  portato in visione a varie categorie umane: coppie di amanti, duellanti, famiglie,  carcerati, tutti richiesti di visionare la tela e commentare a suon di pollici. Finalmente, raccolta una discreta quantità di like, il quadro torna a casa,  e i commensali possono finalmente iniziare il loro pasto. Di colpo, la scena cambia e viene portata avanti fino ai giorni nostri, con un padre intento a fotografare un pollo arrosto mentre la famiglia è lì che aspetta di poter pranzare. Ma questa volta,  al primo sbuffo di noia della figlia, il padre molla il  telefono e si inizia a pranzare tranquilli e beati, senza smania di foto e condivisioni. Take it easy, non è una gara, è un pasto! Firmato Ikea.
E’ questo infatti uno degli spot, realizzato qualche mese fa, tra i più riusciti del colosso svedese del mobile, e bisogna ammettere che mai  ritratto delle nuove manie che si stanno ormai impossessando del nostro buon senso è stato più azzeccato:  la nostra pulsione irrefrenabile a fotografare e postare cibo -  che sia cucinato da noi ma  anche solo più semplicemente consumato da noi,  ma preparato invece dalle più abili mani di un cuoco professionista nella cucina di un ristorante – sta ormai assumendo i contorni del ridicolo e del grottesco: non esisto se non   posto un piatto di patate arrosto, non sono nessuno se non ho nel mio  personale carniere di Instagram almeno una preda composta da un selfie con  qualche Massari o Bottura di turno, sono praticamente un paria degno di dispregio se non conosco a menadito l’agiografia di Carlo Cracco nonché il numero di stelle che ha raccattato ogni singolo chef sparso per il globo.
Solo qualche melenso retrogrado continua imperterrito a postare foto di tramonti e selfie con vallette e calciatori, categorie umane desuete, superate e consegnate al triste destino dell’oblio e della banalità: finiti i tempi in cui la foto con Totti era un trofeo da incorniciare, finiti i tempi in cui lo scatto con Jennifer Lopez era considerato al pari di una reliquia di Don Bosco. Ma soprattutto finiti i tempi in cui, arrivata la portata, ci si accingeva con  l’acquolina in bocca a gustarne il delicato sapore. Ora,  la portata che arriva non fa più venire l’acquolina in bocca a nessuno, a nessuno, se non a Enrico Crippa ,  importa più minimamente se il piatto cucinato con tanta cura  diventa freddo e perde la sua poesia. Anzi, molte volte, nelle cucine casalinghe, il piatto è stato cucinato apposta per essere fotografato, postato, condiviso, mica per essere assaporato. Ovvio quindi che importi di più che sia bello, piuttosto che sia buono. Tanto, anche se non è buono, su Instagram mica si vede…
E per vedere il video, cliccate qui

Crediti immagini: Ikea

del

domenica 19 marzo 2017

VIRGINIA RAGGI E IL COMPLOTTO DEL PRANZO NON PAGATO



Se n’è andata senza pagare il pasto, come uno scroccone qualsiasi.
No,  non è vero, ha consumato solo un bicchier d’acqua.  Del rubinetto, oltretutto, tanto l’azienda municipale in fondo è sua.
No, invece, s’è sbafata anche una caponata, anzi, la prima l’ha pure rimandata indietro perché diceva che era fredda.
Avrete tutti capito che parliamo di lei, Virginia Raggi,  il sindaco   no, non riuscirò mai a dirlo al femminile –  di Roma al centro in questi giorni di un complotto  intricatissimo che manco il  famigerato piano Kalergi riesce a  eguagliare.
E la questione stavolta è davvero spinosa: altro che le oscure trame degli  abbandonatori  notturni di frigoriferi indifesi vicino ai cassonetti  della spazzatura, messi lì ad arte per infangare il buon nome della novella amministrazione pentastellata, altro che polizze assicurative stipulate a sua insaputa, altro che cerchi magici e collaboratori di dubbia fama: qui  si tratta  di cibo, di ciccia, di trippa vera! 
Si tratterebbe infatti, stando alle cronache, di pasti regolarmente consumati  -  e mai pagati -  da Virginia Raggi, sindaco romano pentastellato,  e da un suo accompagnatore.
Questo è almeno ciò che sostiene Nicola Delfino,  titolare del locale romano “Benito al ghetto” e che è stato recentemente omaggiato di una visita  del sindaco  pentastellato. 
 Visita gradita e inaspettata, tanto che il trepidante cuoco  si sarebbe recato al tavolo del sindaco esordendo con un caloroso  “è stato un piacere averla qui!”. Affermazione che pare sia stata erroneamente  intesa dal  prestigioso ospite e  accompagnatore come  un chiaro invito a non passare dalla cassa e a godersi la cena bellamente offerta dalla casa: d’altronde,  ache pro diventare sindaco di Roma se non si viene manco omaggiati di una coda alla vaccinara o di  abbacchio al forno?
Ma la cena in omaggio,  in realtà,  non era affatto nelle intenzioni dell’oste, il quale, ora, reclama ai quattro  venti il guiderdone negato, o dimenticato, mentre Raggi  - ma va? - grida  nuovamente al complotto, cavallo di battaglia  sempreverde dei cinquestelle.
Per il sindaco, infatti, tutta la storia sarebbe soltanto una montatura, una bufala,  messa su ad arte per screditare lei e i suoi;  così scrive infatti Raggi sulla sua pagina Facebook ,  precisando in un lungo post che nel giorno del fattaccio  aveva “già cenato”, e ovviamente non aveva cenato una seconda volta al ristorante. Precisa inoltre, la povera sindaca,   di essersi  recata  nel locale in questione  solo ed esclusivamente per incontrare degli amici, consumando soltanto un bicchiere di morigeratissima acqua del rubinetto – notoriamente offerta gratuitamente in ogni locale - così come usa fare  anche il suo personale Gianni Boncompagni, al secolo Beppe Grillo, che è uso, nei ristoranti e negli hotel in cui si reca, abbeverarsi esclusivamente alla fonte  dell’acquedotto municipale,  a dimostrazione della morigeratezza dei costumi sua e dei suoi fedeli.
Tutto chiarito, dunque?
Macchè:  né l’oste, né Umberto Birindani, direttore di Oggi, che ha pubblicato la notizia, ci stanno, e rincarano la dose su Dagospia: il sindaco, precisa Birindani,  si sarebbe recato nel locale in ottobre con un accompagnatore, e non per incontrare degli amici dopo cena ma per consumare un pasto regolare, una “colazione completa”; anzi, ricorda il titolare, calzava delle ballerine e avrebbe pure rimandando indietro una caponata a suo dire troppo fredda.  E  trascurando la noiosa incombenza di passar dalla cassa per pagare quanto consumato.
E il particolare del bicchier d’acqua del rubinetto, e la storia dell’incontro con gli amici dopo cena?
“Evidentemente la sindaca ricorda un'altra occasione in cui non ha pagato – continua Birindani -Facile confondersi, se capita spesso".
E quindi, ora, come la mettiamo?  Chi avrà ragione, chi avrà torto? Il sindaco integerrimo o l’esoso ristoratore?

“Pronto, Beppe, pronto? Ahò, ce stai? Pronto, Beppe… Che ddevo dì, che ddevo fà? Pronto, Beppe…”

Immagini: Oggi. Crediti: Il Giornale, Dagospia

sabato 18 marzo 2017

PANE VECCHIO






Ore nove del mattino. 
Sono già in ritardo per il lavoro. Schiaffo la macchina in tripla fila,  metto le regolari quattro frecce, balzo come un felino (…) giù dalla macchina e mi fiondo nella prima panetteria che mi capita. Tanto, in genere, il pane è tutto uguale, anche quello in panetteria: friabile, cartonoso, molle e con una vago retrogusto di finocchio, di anice –che siano i famigerati “miglioratori”? –quindi una vale l’altra.
Questa, poi, la conosco già: è senza infamia e senza lode, ci sono capitata già altre volte e ho trovato il solito pane e la solita pizza mediocri.
Però oggi la focaccia ha un aspetto diverso.   Più soffice, più ricco, con le parti belle unte di olio,  come piace a me, bianca e meno cotta dove acqua e olio sono stati più abbondanti. E anche il panettiere  è nuovo:  è un ragazzo giovane, avrà nemmeno trent’anni.  Ed è  anche simpatico, disponibile e disposto alla chiacchiera senza essere pesante: “se le piace più unta, di olio gliene metto quanto vuole”, mi dice. Mi sembra un buon esordio.
E poi vedo anche delle belle biovette.  Colorite il giusto, né troppo cottè né troppo chiare, mi fanno l’occhiolino dalla vetrina. “Mi dia anche due biovette, per favore”.
E poi mi azzardo a chiedere,  presagendo già la risposta: “Avete anche della pasta dura?”
“No, pasta dura non la faccio”.
E visto che il tipo è simpatico e socievole mi appresto a chiedere di svelarmi il segreto della pasta dura: “Ma perché in tutta Torino è quasi impossibile trovare della pasta dura?”
“Mah, non la mangia più nessuno, non la chiedono, non piace molto. Nemmeno a me piace..”
E nemmeno a me, in effetti: troppo secca, troppo asciutta, troppo friabile, troppo….dura! Ma a mio figlio,  a Gabriele, sì, quindi sono sempre alla ricerca di nuove panetterie che la vendano, per avere dei punti di riferimento.
Peccato che poi il simpatico panettiere aggiunga: “La pasta dura la mangiano a Ferrara, ma qui…la mangiano solo più gli anziani, i vecchi… è una pane da vecchi”.   Ah, grazie!  Che bel buongiorno!
E poi, non pago, aggiunge pure, sempre sorridendo: “E in effetti, anche le biove sono un pane da vecchi…le faceva nemmeno mio padre, le faceva mio nonno!”
Carino lui!
Prendo la mia focaccia, le mie biove, pago e risalgo in macchina.
Con il mio pane vecchio. O meglio, da vecchi.
Il tempo passa per tutti.  
E tutto ce lo ricorda, persino il pane che prediligiamo: inutile mettersi jeans e cuffiette, tutto potrà tradire i nostri lustri: pure un’innocente, calda, fragrante biovetta. 
O anche una pasta dura.




Foto: La confraternita della pizza, Taccuini storici

domenica 12 marzo 2017

SONIA BRUGANELLI, I TRENTA EURO E L'AREO PRIVATO. POTENDO, PERCHE' NO?




Prima, la scorsa estate,  posta uno scatto di tutta l'allegra famigliola – mamma, papà, tre figli e regolare amico di famiglia al seguito – beatamente assisi sui sedili di un aereo privato noleggiato per recarsi in vacanza a Formentera  - mica a Finale Ligure, -  al grido  non solo di “bando agli iprocriti” ma soprattutto del più sincero e lineare “potendo permetterselo, perché no?”
Poi, non paga, a distanza di un nemmeno un anno ci ricasca, e posta di sua mano un video su Instagram  mentre è di fronte a un bancomat,  a Cortina d’Ampezzo, naturalmente,   perché nelle –peraltro stupende  -  valli di Lanzo ci vai tu, dove in risposta a un amico che la esorta a prelevare solo trenta euro, l’accorta massaia risponde giustamente con un “e che ci faccio con trenta euro?”,  dimostrando un indisctubile senso pratico.
Infine, pochi giorni fa, in un perseverare diabolico che veramente ci fa domandare se ci è o ci fa, posta un video della nobil prole, intenta a sciare sulle nevi, ovviamente di Cortina,scatenando l’invidia di chi Cortina e Formentera se le può permettere ben più raramente, dovendosi accontentare del più popolare mare di  Diano Marina  o delle più ordinarie nevi delle sopracitate valli di Lanzo o, al limite, della Val di Susa. Scatenando ancora una volta l’invidia di stuoli di rosiconi che le chiedono “ma i tuoi figli li mandi mai a  scuola?" cui segue la beffarda  risposta: “no, firmano con una X”.
Lei, l'avrete riconosciuta,  è Sonia Bruganelli, moglie del popolarissimo  conduttore televisivo Paolo Bonolis, che dall’estate scorsa si scatena su web e social postando graziosi attimi di vita familiare che hanno però purtroppo tutti lo stesso tenore o lo stesso olezzo. Quello dell’ostentazione cafona. Attenzione, non quello della ricchezza, del benessere raggiunto, del godersi i meritati,  legali e regolarmente tassati guadagni che derivano da una professione – quella del conduttore televisivo esercitata dal consorte -  che, per quanto privilegiata, riviste comunque i connotati di un vero e proprio mestiere, no. E' il sentore della spocchia e della boria di chi si autocompiace della propria fortunata condizione, dimenticandosi delle ben diverse condizioni in cui si arrabatta la maggior parte dei propri simili.
Questo è quello che si rinfaccia alla gentil signora, l'ostentazione becera, pacchiana,  e non la posizione agiata e privilegiata: ben pochi infatti, al contrario di quanto afferma Bruganelli nei suoi post, sono  ancora così triviali e forcaioli  da dare addosso a chi, per merito o per fortuna, dispone di risorse maggiori delle proprie o di un’occupazione cui molti di noi aspirerebbero, pur non avendo le doti  e le abilità indiscusse del noto marito. 
Quello che dà  invece fastidio, in questi video, in queste scenette di vita dorata ostentata, è la manifestazione del lusso, del benessere, di una condizione  di privilegio che mi permette di poter noleggiare un areo per andare a Formentera o di considerare  praticamente  nulla una somma – trenta euro – che per alcuni invece può essere importante. Se Maria Antonietta avesse mai veramente pronunciato la fatidica frase che le viene attribuita e che suona “Il popolo non ha pane? Che mangino croissants!”, la Bruganelli, nella sua inattaccabile quanto miserrima logica,  ne sarebbe la novella interprete. 
Dimenticando che il non ostentare la propria condizione privilegiata in un Peaese dove il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 40% e dove molte persone, tra cui molti anziani  dopo una vita di regolare lavoro,   non riescono ad arrivare a fine mese, né  tantomeno a farsi un giorno di vacanza nemmeno a Milano Marittima non è ipocrisia: è semplicemente rispetto.
A volte, sarebbe bene  tenerne conto.
Potendo, perchè no? 



foto: Torino Today