martedì 30 ottobre 2018

CHEF KUMALE', COME VA? TUTTO OK?







Galeotta fu…la parmigiana di melanzane. E chi ne propose l’ardita rivisitazione con l’aneto.
Pare sia stata lei, infatti, a far scatenare l’ira funesta di Chef Kumalè, al secolo Vittorio Castellani, ospite frequente de La Prova del Cuoco e che un paio di giorni fa ha scatenato un mare di polemiche a causa di un suo post su Facebook.
Nell'annunciare infatti il suo gran rifiuto, per il giorno successivo, alla partecipazione al programma ora condotto da Elisa Isoardi, lo chef scrive che “dovrei andare a raccontare poco più di niente, tra ricette fusion e rivisitazioni strampalate, facendo lo slalom tra termini e definizioni da evitare", e accusando la trasmissione di preferir dare spazio “al multiregionalismo italiano piuttosto che al multiculturalismo a tavola”. 
E fin qui pace, si rimane nel campo della legittima opinione. Peccato che poi parta il pippone di politica da bar sport, con lo chef che si dice seriamente preoccupato per “l’aria asfittica che si respira in questo Paese”, ficcandoci di mezzo la “povertà culturale che in modo silente ma sostanziale sta rinforzando sentimenti e scelte che reputo molto pericolose per la nostra Italia”, per finire in gloria con una uscita a effetto: “Anche in cucina ormai mi sembra chiaro il concetto di “solo gli italiani”, che rappresenta un’estensione di “prima gli italiani”. 
Allora, va bene tutto, va bene che non siano gradite le ricette del programma, va bene che non piaccia la conduzione, va bene giocare al tiro al piccione con la Prova del Cuoco e con Elisa Isoardi, parafulmine degli antagonisti del suo scomodo fidanzato. Ma aggrapparsi a un banale pretesto per buttarla in politica di bassa lega, a me sembra davvero un po’ bizzarro. E ancor più bizzarro è cio che è seguito il giorno successivo, con la comparsa di un altro post, dove viene spiegata la rimozione del post incriminato per evitare che la propria opinione diventi “terreno di sciacallaggio” e per evitare che le informazioni vengano “distorte, amplificate e travisate”. 
“Certe tematiche - scrive Chef Kumalè - , quelle relative alle cucine e culture “altre”, rischiano di diventare un tabù, grazie al clima di intolleranza che oramai si respira a piene mani, dal web alla carta stampata, passando dai Social fino alle televisione”.
Allora, tutto va bene, tutto, ma davvero ora vedere il marcio ovunque e dovunque, vedere ovunque intrighi, intimidazioni, giochi sporchi e censure in ogni luogo e contesto, persino in una parmigiana di melanzane, per gridare contro l’attuale vicepremier leghista - perché questo era il bersaglio, nemmeno tanto velato, dei post dello chef – sembra davvero un’esagerazione.
“Cum al’è” - esoticizzato dallo chef in “Kumalè”- in piemontese traduce letteralmente l'espressione “com’è”, col significato di “come va?”. 
Visti i toni degli ultimi due post, un nome d’arte su cui, forse, lo chef dovrebbe seriamente riflettere.

domenica 28 ottobre 2018

SALVINI? PER IL RISTORATORE NAPOLETANO NEL SUO LOCALE NON PUO' ENTRARE







Come attirare l’attenzione di media e giornali, e avere un po’ di visibilità gratis, che in tempo di vacche magre non fa mai male? 

Beh, basta tirare in ballo Salvini, no? Basta evocare il nome magico, condirlo con un po’ della solita lagna buonista infarcita di termini obsoleti et voilà, il gioco è fatto: pubblicità e visibilità (gratis) assicurate. Questo è ciò che deve aver pensato un buontempone di ristoratore napoletano, che ha avuto nei giorni scorsi la bella idea di affiggere sulla porta del suo ristorante un manifesto raffigurante una foto di Salvini all’interno di un segnale rosso di divieto con tanto di scritta, quello che un tempo quei razzisti fascisti di commercianti di generi alimentari usavano per i cani, ovvero “io qui non posso entrare”, il tutto corredato dalla scritta “vietato ai razzisti”. Ovviamente attirando subito l’attenzione di tutti i media schierati, che si sono precipitati dal proprietario del locale napoletano per avere lumi sulla sua temeraria iniziativa, sentendosi sciorinare tutto il refrain di moda in questi tempi, a base di “C’è ormai un clima di orrore, rigurgiti fascisti, xenofobi, razzisti. Io non appartengo a quei napoletani che credono nella verginità politica di Salvini. Per me chi è razzista, chi è omofobo, qui dentro non entra. Abbiamo messo la faccia di Salvini, ma il messaggio vale per tutti i razzisti: qui non entrerete mai.”
Allora, a parte l’assurdità della scena di un ristoratore che, all’appropinquarsi di un cliente, si piazza davanti alla porta chiedendo “scusi, lei è per caso xenofobo, razzista, omofobo e razzista? Perché in tal caso, abbia pazienza, sono costretto a farla buttare fuori dal locale”, il bravo esercente dovrebbe sapere, avendo dovuto lui sostenere (e superare) tanto di esame alla Camera di Commercio locale per esercitare la sua attività, che, ai sensi del Regio Decreto n. 635/1940 ancora in vigore, il Regolamento di attuazione del TULPS, il Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza n. 773/1931, i pubblici esercizi devono essere fruibili a chiunque (sennò che pubblici sarebbero?), e che l’esercente non può impedire l’ingresso a nessuno senza un legittimo motivo. Legittimo motivo che non contempla, al momento, la dicitura “essere Salvini”, né tantomeno le altre. 
Insomma, quella dell’astuto esercente napoletano pare proprio essere quella che sembra: un’esca, una sorta di boutade per avere un po’ di visibilità. Con magari la recondita speranza di fare il colpo grosso, e che il Ministro dell’Interno, per mostrare il suo spregio verso il divieto illegale, si presenti in carne e ossa nel locale napoletano, aumentandone così ulteriormente la visibilità. Ma Salvini, oltre a non essere un cane, non è nemmeno un pollo, e c’è da immaginare che non avrà alcun interesse a omaggiare di una sua visita il “locale anti razzisti”. Che resterà lì, con il suo inutile cartelletto di divieto, ad accogliere i clienti.
Tutti, come stabilisce quella razzista di legge.

giovedì 25 ottobre 2018

FEDEZ-FERRAGNI: PER LA COPPIA PIU' SOCIAL DEL MONDO I IL CIBO E' IL GIOCATTOLO PIU' DIVERTENTE



Allora, prima hanno sequestrato un intero volo della compagnia aerea di Stato per i fortunati  mortali invitati al loro matrimonio a Noto, con tanto di graziosi pupazzi giganti riproducenti le loro fattezze. E già lì i difensori d’ufficio,  per non passare per rosiconi, hanno attaccato la tiritiera del “ma comunque il volo l’hanno pagato, in fondo non fan male a nessuno e beati loro che se li possono permettere”. 
Poi ci hanno storditi con le immagini rimpallanti sui social del loro matrimonio da favola infarcito di vip, per la gioia dei fan. 
Poi ci hanno inflitto le prodezze del loro primogenito, Leon.  In mezzo c’è stata pure la storia dell’acqua pubblicizzata da Miss Ferragni a 8 euro a bottiglia, che tanto “la Armani costa uguale, ce ne sono di ben più care e poi siamo in libero mercato”. Parole vere e sacrosante.

Ma questa, proprio no. 
Questa davvero alla coppia Fedez Ferragni - anzi, Ferragni Fedez, che è più giusto -  non la si può proprio lasciar passare così, come una ragazzata. Va bene sequestrare un intero supermarket per festeggiare il compleanno dell’amato consorte, va bene; d’altronde, chi di noi non ha mai festeggiato il proprio compleanno in un Carrefour o in un Bennett, suvvia?  
Va bene anche voler essere originali e celebrare dei compleanni modesti e discreti, invece delle solite pacchianate  urlanti. 
Ma quello che non va bene è voler pure fare il moralista dei moralisti, dire "io non sono così" o dire che ci sono altri che fanno peggio.
 Dopo le  immagini in cui i panettoni, - industriali, ok, ma sono pur sempre i panettoni che abbiamo  mangiato tutti fino all’altroieri,  quando non ci era ancora presa la smania per i panettoni artigianali  - vengono usati come palle da calcio, dopo aver visto gente accasciata piedi, sedere e scarpe nei carrelli dove i clienti, il giorno dopo, ci mettono i formaggini e il pancarrè, dopo aver visto ragazze e ragazzi che ballano scatenati con cespi di lattuga in mano, un vago senso di disgusto ci assale. 
Vedere il cibo ridotto a mero gioco, o svago, per due ragazzi ricchi e famosi lascia l’amaro in bocca. 
Ma non tanto per lo spreco, che in fondo può essere anche limitato: è presumibilmente vero infatti, come dice Fedez, che a Masterchef ne viene sprecato molto di più, dopo essere stato violentato dalle mani inesperte di concorrenti incapaci. 
Eppure, nonostate la brutta fine, nel talent gastronomico il cibo è trattato comunque con rispetto: nessuno si sogna di usare il pane per giocare a calcio o la cicoria per fare danze sexy, né tantomeno nessuno usa il carrello per sdraiarcisi dentro e farsi ricoprire di ogni ben di Dio. Anzi, i concorrenti vengono pure dotati - almeno nell'ultima edizione - di regolare doggy-bag per recuperare il cibo di cui hanno fatto scempio con le loro preparazioni.
Ecco, non è tanto lo spreco, non è il panettone preso a calci, il casco di banane o la foglia di lattuga, no. E’ l’atteggiamento che urta, che amareggia: l’atteggiamento di chi è, o ha, di più dei suoi simili, e guarda dall’alto gli altri che quel cibo, invece di giocarci a basket, lo usano più umilmente per sfamarsi, magari trovandolo pure caro, magari scegliendo con attenzione il pacco di pasta senza marca per risparmiare pochi centesimi. E che lo mette con riguardo nel proprio carrello, pagandolo alla cassa dopo aver fatto la fila. E’ stato questo l’errore, questo lo scivolone. E di fronte a queste pacchianerie, a questa ostentazione gratuita, a questo fare cose che agli altri comuni mortali non sono concesse,  non c’è beneficenza né lacrime che tengano.
Un tempo, ai proprio figli, si insegnava a non sprecare il cibo, addirittura a non lasciare una briciola di ciò che era nel piatto, e per molti di noi che avevano l'abitudine di giocare a tavola con delle pallottoline di mollica di pane, il richiamo era immediato: "Non si gioca con il cibo!". Ecco, probabilmente Fedez e consorte non hanno compreso bene quella lezione. E vagliela a spiegare ora, adulti e vaccinati, ricchi e famosi, che un supermercato alimentare non è il loro personale luna park...

martedì 9 ottobre 2018

CHIARA FERRAGNI, L'ACQUA EVIAN, IL LUSSO E LO STRACCIARSI LE VESTI INUTILMENTE


Nutro una profonda avversione che sconfina nell’invidia più nera per Chiara Ferragni.  D’altronde lei è giovane, è bella, bionda, ha gli occhi azzurri ed è pure ricca sfondata. Grazie oltretutto a un mestiere che fa rosicare una bella schiera di persone, chine per ore sui computer a cavarsi gli occhi o comunque intente a qualche altro lavoro disgraziato, poco remunerato e con gratificazione pari a zero. Invece lei, che si è sposata con tal Fedez, vale a dire con un altro discreto patrimonio ambulante, fa la “influencer”, cioè detta legge a schiere di modaiole/i che seguono manco fossero la legge delle dodici tavole i suoi consigli per gli acquisti, per lo più di moda.  Ebbene, nonostante tutta questa sana invidia e livore che legittimamente nutro nei suoi confronti, davvero non riesco a vedere tutto questo scandalo per essersi “venduta” all’acqua minerale Evian, di cui ora è bionda testimonial. D’altronde, non è certo la prima: prima di lei si ricordano Martina Colombari, che faceva plin plin con Del Piero, e Rosanna Lambertucci, la cui posizione, a mio parere, era pure aggravata dal fatto che dispensava consigli salutistici in una popolare trasmissione TV, e quindi la sua testimonianza pesava molto di più, per il consumatore medio, dell’opinione di una miss Italia o di un calciatore.
La Ferragni, quindi, non ha certo fatto un uovo fuori dal cesto, e si è dedicata alla naturale evoluzione del suo mestiere di blogger-influencer, vale a dire la pubblicità commerciale in senso stretto, senza messaggi subliminali di tipo salutistico o dietetico. E allora, dove sta lo scandalo? Bene, pare che a molti non vada giù il fatto che l’acqua da lei suggerita costi una schioppettata, vale a dire circa 6 euro a bottiglia. Un’enormità, in confronto alla normale acqua minerale che la maggior parte di noi porta in tavola tutti i giorni comprandola in offerta 3x2 al super sotto casa. E tutto questo a fronte solo di un semplice logo, quello ormai notissimo della Ferragni, ovvero un occhio azzurro stilizzato alla cz, che campeggia fiero sulla bottiglia.
Eppure, le acque di lusso si comprano proprio per questo, non certo per bere tutti i giorni come fossero acqua fresca: si acquistano cioè per vedere, e far vedere a tutti, che noi abbiamo l’acqua con la A di Armani che campeggia fiera sulla bottiglia oppure il logo della Ferragni o di chissà chi altri. Si chiama lusso, è sempre esistito, ed è un settore che non conoscerà mai crisi, almeno in un libero mercato e anche in quelli meno liberi. Chiara Ferragni ha cavalcato l’onda e ha monetizzato se stessa e la sua fama, anche con l’acqua. Certo,  in teoria l’acqua Ferragni non ha nulla di diverso da un buona acqua da tavola, la molecola dell’acqua, al netto di residui, minerali o altro, sempre quella è, e le leggi della fisica non cambiano certo per la bionda influencer. Ma in pratica, un qualcosa un più ce l’ha: ha quell’allure, quel fascino, quel profumo magico ed esclusivo di cui tutti i beni di lusso – acque comprese – ,  sono ammantati, e che spandono attorno a sè. Ed è questo che si paga. Mica l’acqua.

sabato 6 ottobre 2018

IL REDDITO DI CITTADINANZA DI DI MAIO: FORSE ERA MEGLIO LAVORARE



Il reddito di cittadinanza non permetterà l’evasione e le spese immorali”.
Parola di Giggino Di Maio.
Bella uscita, certo, basta mettersi d’accordo su cosa possano essere le spese “immorali”, visto che ad oggi una lista di proscrizione dei cibi immorali non esiste e che tutto è per ora lasciato alla fantasia e alla facile ironia. 
Di sicuro il pane con la mortadella, il più economico dei salumi e che ricorda mandrie di operai affaticati impegnati nella costruzione di tunnel oaltre imprese faraoniche, sarà una spesa morale, e sicuramente rientrante nella categoria di alimenti atti a “assicurare la sopravvivenza minima per l’individuo”, come sempre il buon Di Maio spiega.
Anche con il salame non si dovrebbero aver problemi, così con il prosciutto cotto, ovviamente non di marca, mentre con speck, prosciutto crudo e salame di cervo o di camoscio di sicuro si entra nel terreno minato. Per non parlare di altri cibi e bevande lussuriosi imparentati con il demonio, nella cui categoria rientrano di sicuro il caviale, le ostriche, lo champagne e ovviamente la Nutella, del tutto inutile a garantire la sopravvivenza minima e catalogabile nella sezione peccati mortali invece che in quella del nutrimento. 
Ovviamente dalle spese morali sono anche banditi sigari, sigarette, gratta-e-vinci (e fin qui possiamo arrivarci) e pure beni di elettronica acquistabili in quella razza di moderni bordelli che sono Unieuro, Trony o altri luoghi di perdizione.
In poche parole, se davvero vuoi usufruire del reddito di cittadinanza, dovrai sfamarti a pane secco, croste di formaggio e salumi dozzinali, meglio se vicini alla data di scadenza e scontati del 70%. Se vuoi farti la barba, sappi che sono banditi i rasoi elettrici e altre diavolerie tecnologiche e lo stesso ovviamente varrà per depilazioni di arti vari da parte delle donne, che a questo punto preferiranno seguire l’esempio di Lourdes Maria Ciccone, la pelosissima figlia di Madonna dall’ascella lussureggiante. D’altronde, il ragionamento di Di Maio, se fosse da intendere così come lo abbiamo esposto, avrebbe in fondo una sua etica, volendo condivisibile: il reddito di cittadinanza è formato anche da soldi dei cittadini, rappresentanti dalle entrate fiscali; e ai cittadini probabilmente non farebbe piacere sapere che parte di quanto le mani adunche dello Stato prelevano dal loro sudato reddito va a finire a gente che li spende in tartufi e champagne invece che in fagioli con le cotiche. 
E quindi sta' a vedere che, alla fine della fiera, tocca pure dar ragione a Di Maio e alla sua etica da soviet: se lo Stato di eroga dei soldi, lo Stato ha il diritto di verificare se li spendi in cellulari o in salsicce, non di Bra ovviamente, che quello sono già un lusso. 
In fondo, forse era meglio lavorare

giovedì 4 ottobre 2018

MIMMO LUCANO: ALTRO CHE CICUTA!



Socrate, per non venire meno al patto di fedeltà di una comunità rappresentato dalle leggi, bevve la cicuta e andò incontro a morte certa, pur avendo i suoi amici e discepoli propostogli un comodo piano di fuga. Per Socrate, l’obbedienza alle leggi rappresentava infatti il principio cardine su cui si fonda uno Stato democratico, anche quando dal singolo sono considerate ingiuste o inique.
Mimmo Lucano, il sindaco di Riace, la pensa in modo diametralmente diverso da Socrate, e in presenza di leggi da lui considerate ingiuste, secondo il suo personale metro di giustizia, non ci pensa su due volte a usare tutto quanto la sua carica gli permetta per uniformare la realtà al suo personale concetto di giustizia.
In questo caso specifico si parla di migranti, di agevolarne arrivo e soggiorno nel nostro Paese, con intrallazzi, sotterfugi e manovre tali in modo tale da aggirare le “leggi balorde” (parole di Lucano) e rimettere un po’ di ordine secondo il suo metro personale. Una “disobbedienza civile”, insomma, messa in atto a scopi umanitari, in barba a leggi e decreti, nella convinzione di essere dalla parte del giusto. 
Peccato che le leggi di cui ogni Stato è dotato non siano piovute dal cielo ma siano espressione di un organo legislativo che a sua volta rappresenta chi lo ha designato: il popolo. Quelle leggi sono infatti una emanazione indiretta del volere popolare, e in quanto tali devono essere, in uno stato democratico, essere osservate in quanto simbolo della sovranità popolare indicata a chiare lettere all’art. 1 della nostra Costituzione, che recita testualmente: “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ecco, piaccia o no le leggi non sono state imposte da nessun dittatore, da nessun monarca o tiranno, ma ce le siamo dati noi, proprio noi, come prevede la nostra Costituzione. 
Ma a Mimmo Lucano poco importa di Costituzione, di Socrate, di sovranità popolare o altre quisquilie: a lui importa ciò che la sua personale coscienza gli indica, e fa di tutto per obbedire, da novello Kant, alla legge morale dentro di sé. E che importa se altri invece hanno idee di giustizia ed equità completamente diverse dalle sue, che importa se qualcuno pensa che anche l’immigrazione e l’accoglienza – ebbene sì, anche loro – debbano essere regolamentate per non arrivare al caos più totale, e occorra gestirle con prudenza, come anche infine Papa Francesco e il Dalai Lama – che hanno rispettivamente affermato l’esigenza di far fronte all’immigrazione con prudenza e di non perdere la propria identità nazionale – hanno convenuto. Mimmo Lucano di Lama e Papi se ne fa un baffo, così come delle leggi balorde: a lui importa solo essere ligio al suo personale concetto di giustizia e umanità, e mette in campo, o meglio ha messo, tutti i suoi poteri di pubblico ufficiale per centrare il suo obiettivo. Ma intanto, le “leggi balorde” han fatto sì che si sia guadagnato l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, completa di arresti domiciliari. Nel tepore della sua casa, Lucano potrà quindi provare a leggere Socrate, oppure anche, perché no, la nostra Costituzione, articolo 1. 

Per gli scrupoli morali, meglio rivolgersi a un buon sacerdote.

lunedì 1 ottobre 2018

LA TORTA TROPEZIANA DI UVA CONTRO LA TARTE TROPEZIENNE FRANCESE: ERA PROPRIO IL CASO?



Sotto, la torta tropeziana della pasticceria Uva, Torino




Sotto, la tarte tropezienne francese




E’ di questi giorni la notizia della battaglia legale che si sta svolgendo tra la rinomata pasticceria Uva, di Via San Secondo, amatissima dai torinesi, e i pasticcieri francesi. Il motivo del contendere? L’iniziativa, da parte della pasticceria torinese, di brevettare la loro “torta tropeziana”, composta da due dischi di pasta choux, cioè la pasta per  bignè, inframezzati da uno strato di crema pasticciera e panna.
Peccato che sia il nome, sia la composizione facciano subito tornare in mente un’altra tropeziana, o meglio la famosissima Tarte tropezienne, un orgoglio di Francia nata in Costa Azzurra negli anni ’50, e il cui nome è dovuto all’inventiva nientemeno che di Brigitte Bardot che, durante le riprese del film “E Dio creò la donna” a Saint Tropez, consigliò al fornaio che ogni giorno rifocillava il set con una morbida torta ripiena di crema di darle il nome di “tropezienne”.
Bene, secondo i pasticcieri francesi, la torta della pasticceria torinese è troppo simile alla Tropezienne per scipparne così il nome, e armati di carte bollate hanno deciso di fare causa alla Tropezienne secondo loro, farlocca e usurpatrice.
Ma davvero le cose stanno così? Davvero la pasticceria torinese sta scippando un titolo non meritato?
Allora, premetto che io ho assaggiato diverse volte la Tropeziana torinese. Ed è ottima, non c’è che dire, anche se la prima volta che mi è stata portata sono rimasta un po’ delusa. Quando mi è stato detto “ti ho portato una tropezienne”, ho subito pensato alla torta classica, quella francese, formata da un due strati di pasta brioche inframezzati dalla crema. Invece questa tropeziana torinese è sempre una torta inframezzata da crema, ma i due strati non sono di pasta brioche ma di pasta choux, quella dei bignè, delle zeppole o del Paris- Brest, per intenderci.  Ottima, certo, ma diversa dalla morbida consistenza data dalla pasta brioche. Eppure, il nome che i pasticcieri torinesi vorrebbero brevettare è proprio quello, torta tropeziana. Peccato che i francesi non siano affatto d’accordo, e nei giorni scorso abbiano spedito una raccomandata ai colleghi torinesi intimando loro di cambiare nome.  Un passo che i titolari della pasticceria Uva non intendono compiere, ribattendo che il loro dolce “non c’entra affatto con quello di Saint Tropez” e che a cambiare nome alla loro specialità “non ci pensiamo nemmeno”. Insomma, i due dolci, secondo Uva e il loro avvocato, sarebbero così diversi da non dare adito ad equivoci tra le due “tropeziane”.
Per me, questa volta, mi spiace dirlo, hanno ragione i francesi, per quanto antipatici e supponenti possano essere: non basta un disco di pasta choux al posto di pasta brioche per rendere distinguibile una torta che è famosissima in tutto il mondo (nonostante l’avvocato di Uva affermi che la Tropezienne sia conosciuta solo entro i confini francesi), e comunque, tra tutti i santi nomi possibili e immaginabili, se davvero si propone un dolce diverso, perché, con tutti i comuni che ci sono in Francia, o, perché no, in Italia, dargli proprio il nome “Tropeziana”? Oltretutto di un dolce a strati farcito di crema proprio come la tropezienne?

Ecco, ci sono volte in cui davvero non riesco a essere campanilista, non riesco a tifare Toro ovunque e comunque solo perché è la mia città, nemmeno per difendere un dolce comunque squisito ma che si rifà sottilmente a un grande classico francese. Per me, in questo caso, “vive la France”.