venerdì 14 dicembre 2018

LO STRAPOTERE DELLA PASTIERA: UN MISTERO ANCORA IRRISOLTO





E’ lei, la pastiera napoletana, che si aggiudica il primato di ricetta più cercata dagli italiani per l’anno 2018, così come riportato da Google Trends, la classifica delle top ten dei vari settori che ogni anno il portale di ricerca pubblica nel mese di dicembre.
E’ proprio la pastiera, qundi, la ricetta che gli italiani si sono più affannati a cercare durante quest’anno che sta perfinire, e che è riuscita a spodestare persino un peso massimo come il tiramisù, che  di fronte a tanto successo si è dovuto accontentare di un misero secondo posto, davanti alla sempreverde pasta alla carbonaa, al terzo gradino sul podio.
In effetti, bisogna riconoscere che la pastiera napoletana la fa da padrona, su Google, da almeno un paio d’anni, considerato che già lo scorso anno si era piazzata al vertice con un decorosissimo terzo posto, sorpassata solo dal migliaccio, sempre napoletano, e dalla carbonara, mentre nell’anno ancora precedente, il 2016, ancora nonfigurava tra le magnifiche dieci ricette più cliccate dagli italiani.
In realtà, però, classifiche a parte, è ormai già da diversi anni che il dolce partenopeo è in cima alle classifiche dei dolci più amati, fotografati e instagrammati dagli italiani. Il tipico dolce napoletano, che un tempo veniva preparato principalmente durante il periodo pasquale, è infatti oggi non solo di moda tutto l’anno, ma è anche diventato un po’ il simbolo del dolce pasquale in tutta Italia, e non solo in Campania, spiazzando ogni altro, colombe e agnellini  di marzapane compresi. Questo probabilmente anche grazie al fatto che il grano necessario a preparare il ripieno del dolce è oggi reperibile facilmente in ogni supermercato, già cotto e pronto all’uso nel suo bel barattolo, mentre un tempo la lavorazione, che prevedeva di cuocere lentamente i chicchi di grano nel latte fino a renderli morbidi e cremosi, era senz’altro più lunga e complessa.
O forse, il motivo di tanto successo sta nel suo aspetto, genuino e rassicurante, un aspetto che sa di buono, di casa, di semplicità, merce che oggi va per la maggiore, almeno a parole e in foto. Insomma, fatto sta che per un motivo o per l’altro, la pastiera oggi è diventata “Il” dolce italiano per eccellenza, non solo per il periodo di Pasqua ma per tutto l’anno, come testimonia appunto Google Trends.
Giusto? Sbagliato? Siamo davvero tutti d’accordo sulla supremazia di questo dolce al di sopra di ogni altro, al di sopra di panettoni, colombe, cremosi e tiramisù?
Bene, sappiate allora che chi scrive non è d’accordo. Per nulla.
Ho assistito per anni, sui social, al dilagare di foto di pastiere propinate in ogni salsa, ne ho assaggiate diverse versioni, sia casalinghe fatte da nonne partenopee doc, sia ordinate nelle migliori, e anche peggiori, pasticcerie di Torino, che può vantare diversi maestri pasticcieri che le pastiere, come qualsiasi altro dolce, le sanno fare allaperfezione. E per me il verdetto è sempre stato quello: la pastiera non mi piace. Troppo massiccio il ripieno con il grano, troppo impegnativa lo sforzo che la consistenza che la frolla e la crema di grano e ricotta richiedono alle mie fauci pur non delicate. Insomma, in una sola parola, troppo pesante. Vuoi mettere con una morbida cassata, anche fatta in casa, con il suo bel bordo fatto di morbido marzapane preparato in quattro e quattr’otto con zucchero a velo e mandorle, con il suo avvolgente ripieno a base di ricotta e quel sapore agrumato dato dai canditi e dall’acqua di fiori d’arancio? Vuoi mettere, anche senza scadere in eccessive decorazioni barocche e ridondanti, la scintillante bellezza della zuccata color dell’oro, del verde-acqua del cedro candito, del bianco niveo della ricotta fresca di pecora? E che dire della cassata al forno, la versione primigenia della cassata, anche lei di una delicatezza e di una morbidzza senza pari? Ecco, quando io penso alla cassata, alla sua morbida crema, al suo profumo e alla sua consistenza ineguagliabile, non posso fare a meno di chiedermi perché. Perché la pastiera sta avendo un così enorme successo pur essendo un dolce, a mio modesto parere, non certo eccezionale, mentre la cassata è nettamente staccata in Google Trends, su Instagaram e sui social vari.  Il motivo davvero non lo comprendo, e in fondo, da brava mezza siciliana, me ne rammaraico. Ma forse, la soluzione del mio dilemma sta tutta, semplicmente, nella parole di un  noto detto: “de gustibus non disputandum est”.
Proprio per questo io continuo, e continuerò  imperterrita,  a preferire sempre, comunque e dovunque, a una fetta di pesante pastiera, un boccone di morbida, soave, delicata cassata siciliana.

venerdì 7 dicembre 2018

IL PANETTONE ARTIGIANALE? TUTTA UN'INVENZIONE


Il panettone è morto, viva il panettone
Sì, perchè il panettone, quello vero, quello originale, è morto, lo sapete?
Attenzione, però, quello che è morto, scalzato dal fratello artigianale, è quello industriale, quello con cui tutti noi, che non abbiamo esattamente cinque o sei anni ma qualche decennio in più, siamo cresciuti. 
Già, perché forse non tutti lo sanno, ma il panettone originale dell’era moderna, e con questa intendo dire il secolo scorso, il panettone che si acquistava esclusivamente in negozi e supermercati e con cui i datori di lavoro erano soliti omaggiare i propri dipendenti a Natale, era proprio quello lì, quello che oggi viene definito con disprezzo “industriale” e che ti tirano dietro al supermercato a due euro al chilo: meno del pane.
Ebbene, proprio quello è il vero panettone così come lo conosciamo oggi: alto, morbido e soffice, e che nulla ha a che vedere con la storiella del “pan de Toni” che ci propinano da ogni parte. O meglio, una sorta di panettone, cioè di un pane dolce, era probabilmente presente anche nei secoli passati, ma non era certo quello che conosciamo noi oggi: era più verosimilmente una sorta di pane schiacciato, basso e ben poco soffice, per non dire duretto (un po’ come il pan dei pescatori ligure mal fatto), insporito con zucchero, burro e un po’ di uvetta candita. Nulla a che fare con il “nostro” panettone: quello, lo ha inventato Angelo Motta che nel 1930 o giù di lì, pensò bene di produrre i suoi strani panettoni, alti e soffici, in modo industriale. Stessa cosa che fece Gioachino Alemagna sei o sette anni dopo. Passata la seconda guerra mondiale, il panettone industriale inventato da Angelo Motta cominciò ad avere un successo senza fine, tanto da essere identificato in tutta Italia, e non solo, come “il” dolce natalizio per eccellenza, almeno fino all’avvento del pandoro, altra invenzione ma stavolta veronese, che iniziò a contendergli il primato a partire dagli anni’70 del secolo scorso. Insomma, dagli anni ’50 in avanti, il panettone così come “reinventato” o meglio inventato di sana pianta da Angelo Motta, nelle sue belle scatole di cartone colorato, era il simbolo del benessere, del buon cibo, della ritrovata agiatezza dopo gli anni della guerra e dell’immediato secondo dopoguerra; e anche di una certa opulenza a portata praticamente di tutte le tasche. Ed era solo ed esclusivamente industriale. Certo, qualche ardito pasticciere o panettiere esponeva nelle sue vetrine dei panettoni artigianali, ma la vulgata comune era che i panettoni di pasticceria non fossero affatto buoni, e che in molti casi fossero semplicmente panettoni industriali scartati dal loro imballo colorato e venduti come “artigianali”.
Ma oggi, e con oggi intendo dire da circa dieci, quindici anni a questa parte, il panettone industriale ha visto declinare pian piano il suo successo. E soprattutto ora, nell’era del culto del cibo, del genuino, dell’eccellenza a tutti i costi, il panettone del supermercato non attira più nessuno, se non come dolce da inzuppo a bassissimo costo di cui fare scorta per intingere nel latte da Natale fino a febbraio. Siamo ormai troppo benestanti, troppo ricchi e troppo “in” per lasciarci ancora ammaliare da semplici dolci industriali con le loro squillanti confezioni multicolor, ed è proprio in questo clima che si sono inseriti i panettoni artigianali. Ormai, tutti fanno panettoni artigianali, dalla panetteria diertro l’angolo ai pasticcieri più affermati per finire con gli chef, passando per varia umanità che, munita di modernissime attrezzature da cucina e armata di pasta madre risalente all’epoca delle guerre puniche, se li produce da sola a casa, con risultati non disprezzabili (a volte).
Ebbene, per quanto quindi il panettone artigianale sia quindi a tutti gli effetti né più né meno che una trovata di questi ultimi anni, per quanto sia figlio ricco di un padre miserando, cioè il panettone industriale, bisogna riconoscere che si è inserito in una fascia di popolazione che lo ha accolto a braccia aperte, e che si è creato un suo segmento di mercato popolato da veri e propri fan. La sottoscritta, ad esempio, è ora una grande estimatrice dei panettoni artiginali: infatti, mentre il panettone classico, industriale, non mi ha mai fatto impazzire, anzi, gli preferivo di gran lunga il pandoro, i panettoni di pasticceria ora mi hanno letteralmente conquistata: morbidi, soffici ma rimanendo comunque umidi, con il gusto marcato di burro, i canditi “veri” e succosi, e non i soliti pezzi di plastica colorati, oltre ovviamente a una attenta e curata preparazione, mi hanno convertito definitivamente al panettone del pasticciere. Che volendo ricorda più un lievitato soffice, una morbida brioche formato magnum, ricca, sontuosa, appagante, da gustarsi e godersi con pace e tranquillità. Insomma, tutt’altra cosa rispetto al povero panettone inventato un secolo fa da Angelo Motta. 
Ma che pure un merito ce l’ha: quello di aver aperto la strada a queste moderne delizie, a questi panettoni artigianali che davvero sono un piacere per gli occhi e per il palato. In fondo, se non ci fosse stato l’umile panettone industriale inventato di Angelo Motta, forse oggi non ci sarebbero nemmeno queste moderne meraviglie dell’arte bianca.
E sarebbe un vero peccato.


Immagini: Firenze Today

Contributi:  Alberto Grandi, “Denominazione di origine inventata”, ed. Mondadori.

mercoledì 5 dicembre 2018

LA CREMA PASTICCIERA DI IGINIO MASSARI? PER ALCUNI E' "VOMITEVOLE". E LUI LI QUERELA





La crema pasticciera di Iginio Massari? Semplicemente “vomitevole”.
Questo è il giudizio senza possibilità di appello che un incauto commentatore ha pensato bene di publlicare su TripAdvisor, il noto portale delle recensioni online, in una lontana mattina di cinque anni fa, nel 2013, senza evidentemente pensare alle conseguenze che la sua colorita recensione avrebbe potuto scatenare. Commento che non si limitava alla crema pasticciera, ma che era in realtà ben più articolato, e che non lasciava spazio ad alcun dubbio in merito sull'opinione del commentatore in merito alla produzione del maestro dei maestri pasticcieri: “Se questa è la tua pasta di mandorle allora non sai cosa sia la realtà. La crema pasticcera è vomitevole. Sarai pure un pasticcere stellato, ma se vuoi imparare a lavorare devi assaggiare i nostri prodotti del Sud Italia”.
Un affronto che Massari ha pensato bene di non lasciar passare impunemente, tanto che senza troppi complimenti è passato al contrattacco, contattando la polizia postale, identificando i leoni di tastiera per poi partire subito con regolare denuncia per diffamazione aggravata. E ora, a cinque anni di distanza, finalmente la questione è arrivata alla conclusione: il procedimento penale si è interrotto, essendo stato trovato un accordo tra il pasticciere e i suoi denigratori, accordo che, stando a quanto riportato, consisterebbe in una lettera di scuse all’esimio pasticciere nonché al versamento di una somma in denaro per il danno di immagine arrecato al dolce Iginio. Denaro che Massari non ha tenuto per sé ma che ha prontamente devoluto a ad una associazione benefica, la Zebra onlus, che si occupa delle fornitura di strumentazioni mediche per ospedali pediatrici. Una giusta vittoria, per il pasticciere bresciano, che oggi dichiara di non aver nulla contro le recensioni online, ma che auspica anche che TripAdvisor e portali simili adottino una politica di “maggiore attenzione, pur nel rispetto della libertà di espressione costituzionalmente garantita”, ma pur sempre con la possibilità di tutela per coloro che vengono bersagliati da “recensioni sopra le righe”.
Tutto giusto, niente da ridire: se la crema di Massari non ti piace e preferisci quella di Montersino o di tua nonna puoi dirlo liberamente, ma scrivere che è vomitevole, senza se e senza ma è un altro paio di maniche, ed è giusto agire con ogni mezzo possibile per tutelare il proprio nome e il proprio lavoro.
Fin qui, i fatti.
Ciò che appare più strano, però, è stata la reazione del popolo del web, che invece di schierarsi in massa a favore del buon Iginio, si è in larga parte schierato dall’altra parte: era il caso di far tutto ‘sto casino per una crema pasticciera? Sì, ok, il commento era colorito, ingiusto e tutto quello che vuoi, ma era davvero il caso di partire lancia in resta con una denuncia penale solo per aver espresso un’opinone negativa? Dove va a finire in questo modo la libertà di espressione e di libero pensiero, anzi di libero commento? Beh, in realtà libertà di opinione e di pensiero esistono sempre, e sono sempre tutelate, ma vanno espresse comunque con rispetto, se non con educazione, anche se pensi di essere al riparo dietro lo schermo di un computer: prova un po’ ad andare da Massari e dirglielo in faccia, che la sua crema pasticciera fa schifo o che non è capaca di fare una pasta di mandorle come si deve, e vediamo se ne hai il coraggio. No, vero? Bene, allora ricordiamo: è sempre buona norma non scrivere in malo modo quello che non avremmo il coraggio di dire in faccia, in presenza del diretto interessato. Forse in questo modo si ritroverà un po' di senso della misura e anche un minimo di educazione. E potremo così dire liberamente tutto quello che vogliamo. 

Sì, anche che la crema di Massari non ci piace.

martedì 4 dicembre 2018

UNA MOLE DI PANETTONI 2018: I VINCITORI DELLA SETTIMA EDIZIONE





E’ la pasticceria “Fornai Ricci” di Montaquila (Isernia) la vincitrice della settima edizione dell’evento “Una Mole di panettoni”, la manifestazione torinese che raccoglie i maggiori maestri pasticcieri di tutta Italia che propongono, in vendita e in degustazione, i loro dolci natalizi in una due giorni torinese tutta dedicata al panettoni.
Una manifestazione ormai giunta alla sua settima edizione, e che quest’anno si è tenuta all’hotel Double Tree Hilton al Lingotto, hotel progettato da Enzo Piano, scalzando l’originaria location delle edizioni passate, il centralissimo Hotel Principi di Piemonte.
 La pasticceria Fornai Ricci  si è aggiudicata il primo premio nella categoria “panettone tradizionale torinese” - quello basso modello Galup, per intenderci -,  merito anche della sua esperienza pluridecennale nel campo della panificazione e della pasticceria, mentre la pasticceria “Posillipo Dolce Officina” di Gabicce Monte (Pesaro Urbino) si è aggiudicata il primo premo nella sezione “panettone tradizionale milanese” -  ovvero quello classifico, alto, così come lo concepì Mister Motta, inventore nel secolo scorso del panettone così come lo conosciamo oggi -,  grazie a una grande attenzione verso la qualità e la scelta di materie prime selezionate.
Da segnalare che nella sezione “panettone tradizionale torinese” il terzo posto è andato a “Farina & club bakery”, di Via Germonio 9  a Torino,  mentre il secondo posto è andato alla pasticceria  “Amici miei” di Corso Vinzaglio, sempre a Torino, a pari merito con la pasticceria “Italia Scapati” di Salerno.
Nella sezione “panettone creativo” il titolo di vincitore va invece alla pasticceria  “Infermentum” di Stallavena (Verona) mentre per quanto riguarda il panettone salato il titolo di migliore d’Italia va alla pasticceria “Pane 2000” di Salerno, con il suo panettone con colatura di alici, capperi e pomodorini secchi.
Ma Infermentum riceve anche altro premio, ovvero quello per il miglior packaging, premio istituito solamente dalla presente edizione, e si aggiudica anche il terzo posto nella categoria “panettone tradizionale milanese”, arrivando così a raccogliere ben tre premi.
La due-giorni del panettone è stata condotta dal giornalista Alessandro Felis,  e si è avvalsa quest’anno anche della collaborazione con Eataly.
Inoltre, la partecipazione di Baileys, maggior sponsor della manifestazione, ha permesso agli oltre diecimila visitatori di degustare i migliori panettoni nazionali in abbinamento con varie versioni del liquore irlandese, da quella classica a quella con cioccolato o quella alla mandorla senza lattosio.
Da menzionare anche la partecipazione di Casa Oz, la realtà torinese che viene incontro alle necessità che le famiglie con figli affetti da vari tipi di disabilità si trovano a dover fronteggiare tutti i giorni, e a cui andrà il ricavato degli incassi a titolo benefico riscossi dalla manifestazione.

Una manifestazione non solo dolce, ma anche buona. Anzi,  di più: benefica.

domenica 25 novembre 2018

DOLCE E GABBANA, LA CINA E LA PRESA PER I FONDELLI



Che poi alla fine Dolce e Gabbana la Cina l’hanno davvero presa per i fondelli.
Ma non con il primo video, quello incriminato,  quello della cinesina alle prese con spaghetti e bacchette e che in fondo è solo insulso, poco efficace commercialmente e zeppo di stereotipi ma non esattamente “offensivo”, almeno per il concetto che abbiamo noi occidentali di tale termine.
In realtà, la vera presa in giro, sottile ma nemmeno tanto, è stata quella del secondo video, quello di “scuse”. 
Un video a prima vista non semplicemente umiliante, ma surreale, assurdo, dove i due poveri tapini, con una scenografia che richiama troppo smaccatamente eventi ben più tragici, con un’aria da funerale e bardati fino al collo in una informe tuta marrone -  di sicuro non proveniente dalle sartorie dei due stilisti -  annunciano mestamente al mondo con aria più che contrita di aver sbagliato, di non aver capito la cultura cinese e di chiedere umilmente perdono.
Ma a mio parere alcuni dettagli fanno pensare davvero ad altro, a un secondo significato, che sa appunto tanto  di presa in giro, un modo di irridere un governo, e una cultura, considerati troppo distanti dai nostri, e quindi retrogradi. Insomma, un modo velato per dare degli zoticoni ai cinesi con una farsa. E questo non solo per la scenografia vagamente (ma nemmeno tanto) di stampo jahadista, con Dolce e Gabbana in atteggiamento di coloro a cui stanno per tagliare la testa di lì a poco, ma anche per il tono di voce, specialmente quello di Stefano Gabbana, quello che in questa storia ci si è trovato invischiato dentro mani e piedi, anche a causa di commenti non proprio "politically correct" verso la Cina poi prudenzialmente imputati a un misterioso hacker. 
Bene, il tono dei due stilisti non è  in realtà né dimesso, né contrito:  è monocorde, vuoto, senza enfasi. E appunto, è proprio Stefano Gabbana che, a un certo momento del discorso, volge gli occhi di lato, come se leggesse un testo. O come se comunque volesse far capire che sta leggendo un testo scritto.

E se uno somma questo atteggiamento,  questo monologo monocorde, non certo spontaneo o particolarmente mortificato per quanto fatto in precedenza, la scenografia inquietante e allusiva, gli abiti a mo’ di tuta da condannato a morte, e tutto l’ambaradan, si capisce che i due stilisti vogliono lanciare un messaggio, oltre quello che viene emesso dal semplice suono delle loro parole; e il messaggio suona più o meno così: vi abbiamo fatto uno spot simpatico, forse bruttino  ma inoffensivo, e voi, con questa scusa, volete bloccare i nostri affari in Cina per motivi protezionistici, per interessi commerciali, facendoci perdere una barca di soldi. Allora, noi scusa ve la chiediamo, vi scodelliamo un video di scuse come le volete voi, anzi, di più: vi prendiamo anche "sottilmente" in giro accostando la vostra società e mentalità a quella degli invasati della guerra santa e delle macabre esecuzioni di “infedeli” vari.  Tutto, facciamo, basta che ci lasciate vendere i nostri vestiti anche nel vostro immenso Paese. 
Anche perché i cinesi -  o meglio i potenziali clienti - , come ricorda Gabbana, “sono davvero tanti”. Mica vuoi perderli tutti per un video cretino?

giovedì 1 novembre 2018

I MARRON GLACE' COSTANO CIRCA 100 EURO AL CHILO: DAVVERO E' GIUSTIFICATO UN PREZZO COSI'?




L’altro giorno sono passata davanti a una panetteria, in pieno centro, qui a Torino. In realà non proprio una panetteria, ma una di quelle cose fighette, che usano ora, dove trovi dal croissant alla romana in teglia, ormai imperante, al caffè e via dicendo. Insomma, in bella vista vedo dei bei marrons glacé. Belli, pieni, con una bella glassa succulenta sopra. E vicino, un cartellino: 1,80 Euro. Così, nudo e crudo, senza altra specificazione. Avrei dovuto capire subito cosa indicava un cartello così generico, senza nessuna indicazione del peso o altro, ma ad ogni modo la domanda mi viene fuori in modo spontaneo quanto ingenuo: “Scusia, ma 1,80 vuol dire all’etto?”. La commessa mi guarda come fossi una pazza: “Ma no, l’uno!” “L’uno??”, rispondo io. “Sì, un marron glacè, 1,80 euro!”.
“Ladri”, penso tra me e me. E me ne esco.
Il giorno dopo vado da un panettiere vicino a scuola di mio figlio, dove vedo in bella mostra altri marron glacè. La panetteria è di quelle classiche, e chissà perché lì per lì oltre al pane prendo anche un marron glacè uno, giusto così, per gustare: importo, due euro. Ancor di più che alla panetteria fighetta. E dato che un marron glacè, intriso di sciroppo di zucchero e glassato, potra pesare al max 20 grammi, il tutto fa 10 euro l’etto, circa 100 al chilo. Circa il triplo della pasticceria fresca media e comunque più del doppio di quella fine, che viene sui 40 euro il chilo.
o 6Dopo essermi fatta andare di traverso il marron glacè da due euro, cerco quindi di documentarmi su quale astrusa preparazione occorra per fare i marrons glacè, visto che la materia prima, i marroni cioè, hanno un prezzo medio che si aggira sui 6-7 euro il chilo, e che un marrone singolo, non ancora glassato, potrà pesare sì e no 15 grammi al massimo, vale a dire sui 10 centesimi, ma facciamo pure 20 per essere magnanimi. Dato quindi che un marrone ancora da glassare costa 20 centesimi, allora tutto il resto del prezzo deve essere dato dalla preparazione. Allora, in realtà il grosso della preparazione sta principalmente in due passaggi: pelare i marroni e cercare di lasciarli interi (e cmq esiste una "tecnica" specifica per farlo perfettamente, in quanto se rotti dovranno essere venduti come spezzettati a un prezzo minore (ma mica poi tanto). Infatti, la successiva fase, quella della canditura, è lunga sì, ma per nulla difficoltosa: i marroni devono stare a imbibersi tranquilli per 5 o 6 giorni in uno sciroppo di zucchero, riscaldandoli una volta nello sciroppo per unminuto ogni giorno. L'ultimo giorno si faranno poi asciugare in forno qualche minuto con il loro sciroppo, oppure si salta pure questo passaggio e si mettono semplicemente a scolare su una gratella. Finito. I più fini, poi, possono essere ancora spennellati con una glassa di zucchero. Insomma, niente di così trascendentale: un semplice bignè, con crema pasticciera e panna montata, è molto più difficoltoso, visto che bisogna preparare e cuocere i bignè vuoti – ricordando che la pasta choux va cotta due volte, prima sul fuoco e poi in forno - poi preparare la crema pasticciera per farcirli, montare la panna e poi riepirli uno per uno con la crema, e stessa cosa per il ciiuffo di panna montata. Per non parlare poi della pasta sfoglia dei croissants, che non è complessa ma va sfogliata e ripiegata a intervalli regolari.
Insomma, morale della favola: la pasticceria fresca è molto più eleborata, e anche costosa, rispetto alla preparazione dei marron glacè. Peccato che la prima costi 40 euro al chilo, i secondi 90-100 euro al chilo. Qualcuno, anche qualche volenteroso panettiere, mi vuole allora spigare perché un marron glacè costa circa 2 euro al pezzo? Perché io davvero non l’ho capito.

Nota: attenzione. Quanto scritto sopra non significa che anche i marron glacé non meritino di essere pagati il giusto prezzo, ma considerato che la loro lavorazione è più che altro lunga, invece che complessa o costosa, se paghiamo 2 euro un marron glacé singolo, quanto dovremmo pagare un singolo bignè, al confronto?

Crediti immagini: Wikipedia, Slowfood

martedì 30 ottobre 2018

CHEF KUMALE', COME VA? TUTTO OK?







Galeotta fu…la parmigiana di melanzane. E chi ne propose l’ardita rivisitazione con l’aneto.
Pare sia stata lei, infatti, a far scatenare l’ira funesta di Chef Kumalè, al secolo Vittorio Castellani, ospite frequente de La Prova del Cuoco e che un paio di giorni fa ha scatenato un mare di polemiche a causa di un suo post su Facebook.
Nell'annunciare infatti il suo gran rifiuto, per il giorno successivo, alla partecipazione al programma ora condotto da Elisa Isoardi, lo chef scrive che “dovrei andare a raccontare poco più di niente, tra ricette fusion e rivisitazioni strampalate, facendo lo slalom tra termini e definizioni da evitare", e accusando la trasmissione di preferir dare spazio “al multiregionalismo italiano piuttosto che al multiculturalismo a tavola”. 
E fin qui pace, si rimane nel campo della legittima opinione. Peccato che poi parta il pippone di politica da bar sport, con lo chef che si dice seriamente preoccupato per “l’aria asfittica che si respira in questo Paese”, ficcandoci di mezzo la “povertà culturale che in modo silente ma sostanziale sta rinforzando sentimenti e scelte che reputo molto pericolose per la nostra Italia”, per finire in gloria con una uscita a effetto: “Anche in cucina ormai mi sembra chiaro il concetto di “solo gli italiani”, che rappresenta un’estensione di “prima gli italiani”. 
Allora, va bene tutto, va bene che non siano gradite le ricette del programma, va bene che non piaccia la conduzione, va bene giocare al tiro al piccione con la Prova del Cuoco e con Elisa Isoardi, parafulmine degli antagonisti del suo scomodo fidanzato. Ma aggrapparsi a un banale pretesto per buttarla in politica di bassa lega, a me sembra davvero un po’ bizzarro. E ancor più bizzarro è cio che è seguito il giorno successivo, con la comparsa di un altro post, dove viene spiegata la rimozione del post incriminato per evitare che la propria opinione diventi “terreno di sciacallaggio” e per evitare che le informazioni vengano “distorte, amplificate e travisate”. 
“Certe tematiche - scrive Chef Kumalè - , quelle relative alle cucine e culture “altre”, rischiano di diventare un tabù, grazie al clima di intolleranza che oramai si respira a piene mani, dal web alla carta stampata, passando dai Social fino alle televisione”.
Allora, tutto va bene, tutto, ma davvero ora vedere il marcio ovunque e dovunque, vedere ovunque intrighi, intimidazioni, giochi sporchi e censure in ogni luogo e contesto, persino in una parmigiana di melanzane, per gridare contro l’attuale vicepremier leghista - perché questo era il bersaglio, nemmeno tanto velato, dei post dello chef – sembra davvero un’esagerazione.
“Cum al’è” - esoticizzato dallo chef in “Kumalè”- in piemontese traduce letteralmente l'espressione “com’è”, col significato di “come va?”. 
Visti i toni degli ultimi due post, un nome d’arte su cui, forse, lo chef dovrebbe seriamente riflettere.

domenica 28 ottobre 2018

SALVINI? PER IL RISTORATORE NAPOLETANO NEL SUO LOCALE NON PUO' ENTRARE







Come attirare l’attenzione di media e giornali, e avere un po’ di visibilità gratis, che in tempo di vacche magre non fa mai male? 

Beh, basta tirare in ballo Salvini, no? Basta evocare il nome magico, condirlo con un po’ della solita lagna buonista infarcita di termini obsoleti et voilà, il gioco è fatto: pubblicità e visibilità (gratis) assicurate. Questo è ciò che deve aver pensato un buontempone di ristoratore napoletano, che ha avuto nei giorni scorsi la bella idea di affiggere sulla porta del suo ristorante un manifesto raffigurante una foto di Salvini all’interno di un segnale rosso di divieto con tanto di scritta, quello che un tempo quei razzisti fascisti di commercianti di generi alimentari usavano per i cani, ovvero “io qui non posso entrare”, il tutto corredato dalla scritta “vietato ai razzisti”. Ovviamente attirando subito l’attenzione di tutti i media schierati, che si sono precipitati dal proprietario del locale napoletano per avere lumi sulla sua temeraria iniziativa, sentendosi sciorinare tutto il refrain di moda in questi tempi, a base di “C’è ormai un clima di orrore, rigurgiti fascisti, xenofobi, razzisti. Io non appartengo a quei napoletani che credono nella verginità politica di Salvini. Per me chi è razzista, chi è omofobo, qui dentro non entra. Abbiamo messo la faccia di Salvini, ma il messaggio vale per tutti i razzisti: qui non entrerete mai.”
Allora, a parte l’assurdità della scena di un ristoratore che, all’appropinquarsi di un cliente, si piazza davanti alla porta chiedendo “scusi, lei è per caso xenofobo, razzista, omofobo e razzista? Perché in tal caso, abbia pazienza, sono costretto a farla buttare fuori dal locale”, il bravo esercente dovrebbe sapere, avendo dovuto lui sostenere (e superare) tanto di esame alla Camera di Commercio locale per esercitare la sua attività, che, ai sensi del Regio Decreto n. 635/1940 ancora in vigore, il Regolamento di attuazione del TULPS, il Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza n. 773/1931, i pubblici esercizi devono essere fruibili a chiunque (sennò che pubblici sarebbero?), e che l’esercente non può impedire l’ingresso a nessuno senza un legittimo motivo. Legittimo motivo che non contempla, al momento, la dicitura “essere Salvini”, né tantomeno le altre. 
Insomma, quella dell’astuto esercente napoletano pare proprio essere quella che sembra: un’esca, una sorta di boutade per avere un po’ di visibilità. Con magari la recondita speranza di fare il colpo grosso, e che il Ministro dell’Interno, per mostrare il suo spregio verso il divieto illegale, si presenti in carne e ossa nel locale napoletano, aumentandone così ulteriormente la visibilità. Ma Salvini, oltre a non essere un cane, non è nemmeno un pollo, e c’è da immaginare che non avrà alcun interesse a omaggiare di una sua visita il “locale anti razzisti”. Che resterà lì, con il suo inutile cartelletto di divieto, ad accogliere i clienti.
Tutti, come stabilisce quella razzista di legge.

giovedì 25 ottobre 2018

FEDEZ-FERRAGNI: PER LA COPPIA PIU' SOCIAL DEL MONDO I IL CIBO E' IL GIOCATTOLO PIU' DIVERTENTE



Allora, prima hanno sequestrato un intero volo della compagnia aerea di Stato per i fortunati  mortali invitati al loro matrimonio a Noto, con tanto di graziosi pupazzi giganti riproducenti le loro fattezze. E già lì i difensori d’ufficio,  per non passare per rosiconi, hanno attaccato la tiritiera del “ma comunque il volo l’hanno pagato, in fondo non fan male a nessuno e beati loro che se li possono permettere”. 
Poi ci hanno storditi con le immagini rimpallanti sui social del loro matrimonio da favola infarcito di vip, per la gioia dei fan. 
Poi ci hanno inflitto le prodezze del loro primogenito, Leon.  In mezzo c’è stata pure la storia dell’acqua pubblicizzata da Miss Ferragni a 8 euro a bottiglia, che tanto “la Armani costa uguale, ce ne sono di ben più care e poi siamo in libero mercato”. Parole vere e sacrosante.

Ma questa, proprio no. 
Questa davvero alla coppia Fedez Ferragni - anzi, Ferragni Fedez, che è più giusto -  non la si può proprio lasciar passare così, come una ragazzata. Va bene sequestrare un intero supermarket per festeggiare il compleanno dell’amato consorte, va bene; d’altronde, chi di noi non ha mai festeggiato il proprio compleanno in un Carrefour o in un Bennett, suvvia?  
Va bene anche voler essere originali e celebrare dei compleanni modesti e discreti, invece delle solite pacchianate  urlanti. 
Ma quello che non va bene è voler pure fare il moralista dei moralisti, dire "io non sono così" o dire che ci sono altri che fanno peggio.
 Dopo le  immagini in cui i panettoni, - industriali, ok, ma sono pur sempre i panettoni che abbiamo  mangiato tutti fino all’altroieri,  quando non ci era ancora presa la smania per i panettoni artigianali  - vengono usati come palle da calcio, dopo aver visto gente accasciata piedi, sedere e scarpe nei carrelli dove i clienti, il giorno dopo, ci mettono i formaggini e il pancarrè, dopo aver visto ragazze e ragazzi che ballano scatenati con cespi di lattuga in mano, un vago senso di disgusto ci assale. 
Vedere il cibo ridotto a mero gioco, o svago, per due ragazzi ricchi e famosi lascia l’amaro in bocca. 
Ma non tanto per lo spreco, che in fondo può essere anche limitato: è presumibilmente vero infatti, come dice Fedez, che a Masterchef ne viene sprecato molto di più, dopo essere stato violentato dalle mani inesperte di concorrenti incapaci. 
Eppure, nonostate la brutta fine, nel talent gastronomico il cibo è trattato comunque con rispetto: nessuno si sogna di usare il pane per giocare a calcio o la cicoria per fare danze sexy, né tantomeno nessuno usa il carrello per sdraiarcisi dentro e farsi ricoprire di ogni ben di Dio. Anzi, i concorrenti vengono pure dotati - almeno nell'ultima edizione - di regolare doggy-bag per recuperare il cibo di cui hanno fatto scempio con le loro preparazioni.
Ecco, non è tanto lo spreco, non è il panettone preso a calci, il casco di banane o la foglia di lattuga, no. E’ l’atteggiamento che urta, che amareggia: l’atteggiamento di chi è, o ha, di più dei suoi simili, e guarda dall’alto gli altri che quel cibo, invece di giocarci a basket, lo usano più umilmente per sfamarsi, magari trovandolo pure caro, magari scegliendo con attenzione il pacco di pasta senza marca per risparmiare pochi centesimi. E che lo mette con riguardo nel proprio carrello, pagandolo alla cassa dopo aver fatto la fila. E’ stato questo l’errore, questo lo scivolone. E di fronte a queste pacchianerie, a questa ostentazione gratuita, a questo fare cose che agli altri comuni mortali non sono concesse,  non c’è beneficenza né lacrime che tengano.
Un tempo, ai proprio figli, si insegnava a non sprecare il cibo, addirittura a non lasciare una briciola di ciò che era nel piatto, e per molti di noi che avevano l'abitudine di giocare a tavola con delle pallottoline di mollica di pane, il richiamo era immediato: "Non si gioca con il cibo!". Ecco, probabilmente Fedez e consorte non hanno compreso bene quella lezione. E vagliela a spiegare ora, adulti e vaccinati, ricchi e famosi, che un supermercato alimentare non è il loro personale luna park...

martedì 9 ottobre 2018

CHIARA FERRAGNI, L'ACQUA EVIAN, IL LUSSO E LO STRACCIARSI LE VESTI INUTILMENTE


Nutro una profonda avversione che sconfina nell’invidia più nera per Chiara Ferragni.  D’altronde lei è giovane, è bella, bionda, ha gli occhi azzurri ed è pure ricca sfondata. Grazie oltretutto a un mestiere che fa rosicare una bella schiera di persone, chine per ore sui computer a cavarsi gli occhi o comunque intente a qualche altro lavoro disgraziato, poco remunerato e con gratificazione pari a zero. Invece lei, che si è sposata con tal Fedez, vale a dire con un altro discreto patrimonio ambulante, fa la “influencer”, cioè detta legge a schiere di modaiole/i che seguono manco fossero la legge delle dodici tavole i suoi consigli per gli acquisti, per lo più di moda.  Ebbene, nonostante tutta questa sana invidia e livore che legittimamente nutro nei suoi confronti, davvero non riesco a vedere tutto questo scandalo per essersi “venduta” all’acqua minerale Evian, di cui ora è bionda testimonial. D’altronde, non è certo la prima: prima di lei si ricordano Martina Colombari, che faceva plin plin con Del Piero, e Rosanna Lambertucci, la cui posizione, a mio parere, era pure aggravata dal fatto che dispensava consigli salutistici in una popolare trasmissione TV, e quindi la sua testimonianza pesava molto di più, per il consumatore medio, dell’opinione di una miss Italia o di un calciatore.
La Ferragni, quindi, non ha certo fatto un uovo fuori dal cesto, e si è dedicata alla naturale evoluzione del suo mestiere di blogger-influencer, vale a dire la pubblicità commerciale in senso stretto, senza messaggi subliminali di tipo salutistico o dietetico. E allora, dove sta lo scandalo? Bene, pare che a molti non vada giù il fatto che l’acqua da lei suggerita costi una schioppettata, vale a dire circa 6 euro a bottiglia. Un’enormità, in confronto alla normale acqua minerale che la maggior parte di noi porta in tavola tutti i giorni comprandola in offerta 3x2 al super sotto casa. E tutto questo a fronte solo di un semplice logo, quello ormai notissimo della Ferragni, ovvero un occhio azzurro stilizzato alla cz, che campeggia fiero sulla bottiglia.
Eppure, le acque di lusso si comprano proprio per questo, non certo per bere tutti i giorni come fossero acqua fresca: si acquistano cioè per vedere, e far vedere a tutti, che noi abbiamo l’acqua con la A di Armani che campeggia fiera sulla bottiglia oppure il logo della Ferragni o di chissà chi altri. Si chiama lusso, è sempre esistito, ed è un settore che non conoscerà mai crisi, almeno in un libero mercato e anche in quelli meno liberi. Chiara Ferragni ha cavalcato l’onda e ha monetizzato se stessa e la sua fama, anche con l’acqua. Certo,  in teoria l’acqua Ferragni non ha nulla di diverso da un buona acqua da tavola, la molecola dell’acqua, al netto di residui, minerali o altro, sempre quella è, e le leggi della fisica non cambiano certo per la bionda influencer. Ma in pratica, un qualcosa un più ce l’ha: ha quell’allure, quel fascino, quel profumo magico ed esclusivo di cui tutti i beni di lusso – acque comprese – ,  sono ammantati, e che spandono attorno a sè. Ed è questo che si paga. Mica l’acqua.

sabato 6 ottobre 2018

IL REDDITO DI CITTADINANZA DI DI MAIO: FORSE ERA MEGLIO LAVORARE



Il reddito di cittadinanza non permetterà l’evasione e le spese immorali”.
Parola di Giggino Di Maio.
Bella uscita, certo, basta mettersi d’accordo su cosa possano essere le spese “immorali”, visto che ad oggi una lista di proscrizione dei cibi immorali non esiste e che tutto è per ora lasciato alla fantasia e alla facile ironia. 
Di sicuro il pane con la mortadella, il più economico dei salumi e che ricorda mandrie di operai affaticati impegnati nella costruzione di tunnel oaltre imprese faraoniche, sarà una spesa morale, e sicuramente rientrante nella categoria di alimenti atti a “assicurare la sopravvivenza minima per l’individuo”, come sempre il buon Di Maio spiega.
Anche con il salame non si dovrebbero aver problemi, così con il prosciutto cotto, ovviamente non di marca, mentre con speck, prosciutto crudo e salame di cervo o di camoscio di sicuro si entra nel terreno minato. Per non parlare di altri cibi e bevande lussuriosi imparentati con il demonio, nella cui categoria rientrano di sicuro il caviale, le ostriche, lo champagne e ovviamente la Nutella, del tutto inutile a garantire la sopravvivenza minima e catalogabile nella sezione peccati mortali invece che in quella del nutrimento. 
Ovviamente dalle spese morali sono anche banditi sigari, sigarette, gratta-e-vinci (e fin qui possiamo arrivarci) e pure beni di elettronica acquistabili in quella razza di moderni bordelli che sono Unieuro, Trony o altri luoghi di perdizione.
In poche parole, se davvero vuoi usufruire del reddito di cittadinanza, dovrai sfamarti a pane secco, croste di formaggio e salumi dozzinali, meglio se vicini alla data di scadenza e scontati del 70%. Se vuoi farti la barba, sappi che sono banditi i rasoi elettrici e altre diavolerie tecnologiche e lo stesso ovviamente varrà per depilazioni di arti vari da parte delle donne, che a questo punto preferiranno seguire l’esempio di Lourdes Maria Ciccone, la pelosissima figlia di Madonna dall’ascella lussureggiante. D’altronde, il ragionamento di Di Maio, se fosse da intendere così come lo abbiamo esposto, avrebbe in fondo una sua etica, volendo condivisibile: il reddito di cittadinanza è formato anche da soldi dei cittadini, rappresentanti dalle entrate fiscali; e ai cittadini probabilmente non farebbe piacere sapere che parte di quanto le mani adunche dello Stato prelevano dal loro sudato reddito va a finire a gente che li spende in tartufi e champagne invece che in fagioli con le cotiche. 
E quindi sta' a vedere che, alla fine della fiera, tocca pure dar ragione a Di Maio e alla sua etica da soviet: se lo Stato di eroga dei soldi, lo Stato ha il diritto di verificare se li spendi in cellulari o in salsicce, non di Bra ovviamente, che quello sono già un lusso. 
In fondo, forse era meglio lavorare

giovedì 4 ottobre 2018

MIMMO LUCANO: ALTRO CHE CICUTA!



Socrate, per non venire meno al patto di fedeltà di una comunità rappresentato dalle leggi, bevve la cicuta e andò incontro a morte certa, pur avendo i suoi amici e discepoli propostogli un comodo piano di fuga. Per Socrate, l’obbedienza alle leggi rappresentava infatti il principio cardine su cui si fonda uno Stato democratico, anche quando dal singolo sono considerate ingiuste o inique.
Mimmo Lucano, il sindaco di Riace, la pensa in modo diametralmente diverso da Socrate, e in presenza di leggi da lui considerate ingiuste, secondo il suo personale metro di giustizia, non ci pensa su due volte a usare tutto quanto la sua carica gli permetta per uniformare la realtà al suo personale concetto di giustizia.
In questo caso specifico si parla di migranti, di agevolarne arrivo e soggiorno nel nostro Paese, con intrallazzi, sotterfugi e manovre tali in modo tale da aggirare le “leggi balorde” (parole di Lucano) e rimettere un po’ di ordine secondo il suo metro personale. Una “disobbedienza civile”, insomma, messa in atto a scopi umanitari, in barba a leggi e decreti, nella convinzione di essere dalla parte del giusto. 
Peccato che le leggi di cui ogni Stato è dotato non siano piovute dal cielo ma siano espressione di un organo legislativo che a sua volta rappresenta chi lo ha designato: il popolo. Quelle leggi sono infatti una emanazione indiretta del volere popolare, e in quanto tali devono essere, in uno stato democratico, essere osservate in quanto simbolo della sovranità popolare indicata a chiare lettere all’art. 1 della nostra Costituzione, che recita testualmente: “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ecco, piaccia o no le leggi non sono state imposte da nessun dittatore, da nessun monarca o tiranno, ma ce le siamo dati noi, proprio noi, come prevede la nostra Costituzione. 
Ma a Mimmo Lucano poco importa di Costituzione, di Socrate, di sovranità popolare o altre quisquilie: a lui importa ciò che la sua personale coscienza gli indica, e fa di tutto per obbedire, da novello Kant, alla legge morale dentro di sé. E che importa se altri invece hanno idee di giustizia ed equità completamente diverse dalle sue, che importa se qualcuno pensa che anche l’immigrazione e l’accoglienza – ebbene sì, anche loro – debbano essere regolamentate per non arrivare al caos più totale, e occorra gestirle con prudenza, come anche infine Papa Francesco e il Dalai Lama – che hanno rispettivamente affermato l’esigenza di far fronte all’immigrazione con prudenza e di non perdere la propria identità nazionale – hanno convenuto. Mimmo Lucano di Lama e Papi se ne fa un baffo, così come delle leggi balorde: a lui importa solo essere ligio al suo personale concetto di giustizia e umanità, e mette in campo, o meglio ha messo, tutti i suoi poteri di pubblico ufficiale per centrare il suo obiettivo. Ma intanto, le “leggi balorde” han fatto sì che si sia guadagnato l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, completa di arresti domiciliari. Nel tepore della sua casa, Lucano potrà quindi provare a leggere Socrate, oppure anche, perché no, la nostra Costituzione, articolo 1. 

Per gli scrupoli morali, meglio rivolgersi a un buon sacerdote.

lunedì 1 ottobre 2018

LA TORTA TROPEZIANA DI UVA CONTRO LA TARTE TROPEZIENNE FRANCESE: ERA PROPRIO IL CASO?



Sotto, la torta tropeziana della pasticceria Uva, Torino




Sotto, la tarte tropezienne francese




E’ di questi giorni la notizia della battaglia legale che si sta svolgendo tra la rinomata pasticceria Uva, di Via San Secondo, amatissima dai torinesi, e i pasticcieri francesi. Il motivo del contendere? L’iniziativa, da parte della pasticceria torinese, di brevettare la loro “torta tropeziana”, composta da due dischi di pasta choux, cioè la pasta per  bignè, inframezzati da uno strato di crema pasticciera e panna.
Peccato che sia il nome, sia la composizione facciano subito tornare in mente un’altra tropeziana, o meglio la famosissima Tarte tropezienne, un orgoglio di Francia nata in Costa Azzurra negli anni ’50, e il cui nome è dovuto all’inventiva nientemeno che di Brigitte Bardot che, durante le riprese del film “E Dio creò la donna” a Saint Tropez, consigliò al fornaio che ogni giorno rifocillava il set con una morbida torta ripiena di crema di darle il nome di “tropezienne”.
Bene, secondo i pasticcieri francesi, la torta della pasticceria torinese è troppo simile alla Tropezienne per scipparne così il nome, e armati di carte bollate hanno deciso di fare causa alla Tropezienne secondo loro, farlocca e usurpatrice.
Ma davvero le cose stanno così? Davvero la pasticceria torinese sta scippando un titolo non meritato?
Allora, premetto che io ho assaggiato diverse volte la Tropeziana torinese. Ed è ottima, non c’è che dire, anche se la prima volta che mi è stata portata sono rimasta un po’ delusa. Quando mi è stato detto “ti ho portato una tropezienne”, ho subito pensato alla torta classica, quella francese, formata da un due strati di pasta brioche inframezzati dalla crema. Invece questa tropeziana torinese è sempre una torta inframezzata da crema, ma i due strati non sono di pasta brioche ma di pasta choux, quella dei bignè, delle zeppole o del Paris- Brest, per intenderci.  Ottima, certo, ma diversa dalla morbida consistenza data dalla pasta brioche. Eppure, il nome che i pasticcieri torinesi vorrebbero brevettare è proprio quello, torta tropeziana. Peccato che i francesi non siano affatto d’accordo, e nei giorni scorso abbiano spedito una raccomandata ai colleghi torinesi intimando loro di cambiare nome.  Un passo che i titolari della pasticceria Uva non intendono compiere, ribattendo che il loro dolce “non c’entra affatto con quello di Saint Tropez” e che a cambiare nome alla loro specialità “non ci pensiamo nemmeno”. Insomma, i due dolci, secondo Uva e il loro avvocato, sarebbero così diversi da non dare adito ad equivoci tra le due “tropeziane”.
Per me, questa volta, mi spiace dirlo, hanno ragione i francesi, per quanto antipatici e supponenti possano essere: non basta un disco di pasta choux al posto di pasta brioche per rendere distinguibile una torta che è famosissima in tutto il mondo (nonostante l’avvocato di Uva affermi che la Tropezienne sia conosciuta solo entro i confini francesi), e comunque, tra tutti i santi nomi possibili e immaginabili, se davvero si propone un dolce diverso, perché, con tutti i comuni che ci sono in Francia, o, perché no, in Italia, dargli proprio il nome “Tropeziana”? Oltretutto di un dolce a strati farcito di crema proprio come la tropezienne?

Ecco, ci sono volte in cui davvero non riesco a essere campanilista, non riesco a tifare Toro ovunque e comunque solo perché è la mia città, nemmeno per difendere un dolce comunque squisito ma che si rifà sottilmente a un grande classico francese. Per me, in questo caso, “vive la France”.

sabato 15 settembre 2018

LA ISOARDI, SALVINI E LA PROVA DEL CUOCO: STORIA DI UN LINCIAGGIO ANNUNCIATO



Premetto: sono di parte. 
La parte di Salvini, in quanto lo ritengo l’unico politco in grado di riportare, o almeno tentare di riportare ordine in un’Italia, e un’Europa, sempre più molle e priva di identità.
Ma questo non fa di me un’automatica fan di Elisa Isoardi.
Non ne seguo le trasmissioni e se la conosco è solo in quanto fidanzata di Salvini. Spinta dal clamore di questi giorni, ho guardato due minuti de La prova del cuoco, e l’ho trovata ancora impacciata, guardinga, lontana dalla sicurezza che davano alla burrosa Antonella Clerici i lunghi anni di monopolio ininterrotto.
A Elisa Isoardi ne han dette praticamente di tutte: antipatica, fredda, mal vestita, raccomandata e pure incapace di condurre un programma dedicato alla cucina. E in effetti la nuova versione de La prova del cuoco per ora non decolla, arranca, fa fatica e non raggiunge i livelli di gradimento e di pubblico ottenuti dalla precedenti edizioni: quasi mezzo milioni di telespettatori in meno rispetto alla prededente edizione condotta dalla Clerici nei primi giorni di programmazione.
A frotte sui social si sono scagliati contro la tapina, rimpiangendo la “Antonellina” nazionale, che dopo 18 atti di conduzione ininterrotta della Prova del Cuoco ha avuto ben modo, e soprattutto tempo, di crearsi un nutrito gruppo di aficionados, uno zoccolo duro che la rimpiange e la venera come la Madonna di Lourdes e che sarebbe disposto a portarla tranquillamente in processione, addobbata di panna montata e tagliatelle al pesto.  
Per quanto mi riguarda, riconosco comunque alla Isoardi il merito di averci liberato da “Antonellina” e dal suo carrozzone composto dalla voce gracchiante di Anna Moroni, dalle stucchevoli canzoncine dello Zecchino d’Oro riproposte all’infinito come una tortura cinese, dalle tagliatelle di Nonna Pina, dall’atmosfera caciarona e finto -familiare dello studio, così come finti erano gli assaggi della Clerici, che quando assaggiava un minuscolo cucchiaio di una qualsivoglia preparazione andava in estasi e masticava duro come se stesse mangiando un bue per traverso.
Gi haters in rete hanno giocato al tiro al piccione con la Isoardi, chi scrivendo che “la Isoradi sta alla prova del cuoco come Salvini sta agli immigrati”, chi consigliandole di cambiare fidanzato, chi anelando al suo mestiere e scrivendo “anche io voglio lavorare in RAI, dove tengono il ferro da stiro?
Ma ciò che fa più pensare, sono gli attacchi di parte, delle “femministe”, delle donne della sinistra, e che rivestono magari pure ruoli istituzionali, le boldriniane, sempre pronte a mostrare il sopracciglio dolente in casi umanitari e portatori di voti ma intolleranti con chi la pensa in modo diverso.
Una di queste, come riporta il Giornale, è la consigliera Pd del Comune di Milano Simonetta D'Amico, che sui social scrive: «Isoardi torna a stirare vedrai avrai più successo. Ma non preoccuparti il tuo fidanzato non ti farà cacciare dalla Rai tanto il canone lo paghiamo noi. Tranquilla!”. 
Un’ altra è l’ esponente del Pd Francesca Barraciu, ex sottosegretaria alla Cultura del governo Renzi (condannata per peculato sui rimborsi regionali in Sardegna), che scrive: «Se proprio la fidanzata di #Salvini non si può licenziare, suggerisco a RaiUno di provare a trasformare la trasmissione in La prova della stiratrice».
Attacchi, più che commenti, che, se avvenuti a parti invertite, cioè diretti da una donna di destra a una di sinistra, avrebbero subito evocato termini come “razzista”, “sessista”, avrebbero fatto invocare a gran voce Asia Argento e avrebbero messo sulla graticola mediatica l’incauta commentatrice. 
Ma la Isoardi è di destra. 
Anzi, non sappiamo nemmeno se è di destra, di sinistra, di sopra o di sotto, ma è findanzata con uno di destra, e tanto basta alle boldriniane dolenti. 
Quell’uno si chiama Matteo Salvini. 
E’ questo che non si perdona alla Isoardi.

lunedì 10 settembre 2018

CHIUSURA DOMENICALE DEI NEGOZI: UN VERO PECCATO



Tutti gli altri Paesi europei hanno qualche restrizione al lavoro festivo e domenicale? E allora? Basta questo per doverci allineare? La liberalizzazione completa dell'orario di apertura degli esercizi commerciali era una opportunità, una chance in più. I piccoli commercianti ne soffrono, si dice. Ma in un'economia di libero mercato, quando un'attività non è economica, cioè non riesce a stare sul mercato competitivamente, semplicemente chiude, tutto lì. Non è né cinico né impietoso, è semplicemente il libero mercato, la concorrenza perfetta. Lo Stato, in un'economia sana, semplicemente non avrebbe ragione di legiferare sull'attività dei commercianti, la regola già il mercato. La liberalizzazione totale era un passo avanti agli altri, un grande passo. Peccato che ora ci si voglia uniformare all'Europa. Ma questa Europa molle, assistenzialista, senza più radici e senza nerbo, è davvero un modello da prendere a esempio?

Immagini: ilgiunco.net

sabato 8 settembre 2018

STARBUCKS, I BAR ITALIANI E I CONFRONTI INUTILI

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Tutto quanto in questi giorni si sta dicendo e scrivendo, in bene o in male, sull'apertura di Starbucks a Milano, lo catalogo nella categoria "chiacchiere da bar". Perchè il confronto tra bar italici che offrono la tazzina di espresso o il cappuccino con la fogliolina di schiuma di latte appartengono a un'altra categoria, sono un'altra cosa rispetto a Starbucks. Starbucks non è solo caffè lungo, frappuccini o dolcetti american style. Starbucks è un modo di essere, un modo di dire "anche io", anche io sono cosmopolita, anche io bazzico gli ambienti che fanno "in", anche io appartengo alla truppa. Il caffè, il frappuccino, i prezzi, viene tutto dopo. L'improntate è esserci, andarne, parlarne, scriverne. Per questo non sono prodotti confrontabili, il bar e starbucks, sono capra e cavoli, sono due cose diverse: nel bar ci vado per bere il caffè al volo, magari un croissant. Da Starbucks ci vado perchè fa figo esserci, per dirlo agli amici e spiattellarlo su Facebook ai propri follower. Il confronto è inutile, la polemica sterile. Starbucks è più che altro fashion, selfie, andare sulla scia. Starbucks è Chiara Ferragni che si sposa con Fedez facendone una soap opera a misura di social. Chi entra da Starbucks non acquista (solo) un frappuccino, acquista un'immagine di sé da diffondere sui social o con gli amici.

immagini:  il Corriere

domenica 12 agosto 2018

MILENA GABANELLI: GUAI A PRENDERE IN GIRO CHEF E ALTA CUCINA!




Un grande piatto bianco e immacolato, in cui languono tristemente tre minuscoli bocconcini di materia indistinta e, accanto, il tagliente commento: “NULLA DI PESANTE Questo è un antipasto. Non so cosa ho mangiato perché non sono riuscita a sentire il sapore (merluzzo mantecato c'era scritto). Ma questi chef...?!”.
Nessuno stupore, se il commento provenisse da uno qualsiasi di noi, comuni mortali. Peccato che foto e commento provenissero da Milena Gabanelli, la giornalista di storiche inchieste su Report ora passata al Corriere della sera. Ed è proprio dal suo profilo aziendale, DataRoom, che la Gabanelli ha sparato il suo pistolotto anti-casta, o meglio anti-chef, rimarcando la deriva inesorabile di considerare i piatti dei grandi chef come vera e propria arte, cui non si devono più abbinare parole comuni come gusto, sapore e altre bassezze simili, ma che sono degni esclusivamente di appellativi che un tempo erano destinati a ben altri tipi di arte. Nomi quali “opera d’arte”, percorso degustativo” “esperienza sensoriale”, “equilibrio compositivo” sono i termini di cui far sfoggio per dimostrare la nostra competenza e il nostro rango, e giudicare un piatto esclusivamente dalla qualità, o ancor peggio dalla sua quantità e dal prezzo, è considerato appannaggio di biechi trogloditi populisti incapaci di leggere l’arte tra gocce di merluzzo mantecato e fior di cappero essiccato, destinati senza appello alle fiamme dell’inferno assieme a Salvini con le sue tagliatelle al ragù e al panino con la mortazza.
E la dimostrazione di questa nuova religione che sta avanzando, è la generale levata di scudi, soprattutto di giornalisti titolati, che si è prontamente levata in favore della titolare del ristorante in questione, lo stellato Marconi di Aurora e Massimo Mazzucchelli, situato a Sasso Marconi, vicino a Bologna.
Tutti paiono contro la Gabanelli e la sua sortita, rimproverandole a turno incompetenza, sciatteria, pochezza, ricordandole che una personaggio come lei, indicato anche dai grillini come eventuale Presidente della Repubblica, non si possa permettere una tale deriva populista e acchiappa like, rimarcandole come gli chef stellati diano lustro e vigore al nostro Paese e alla nostra economia, generino posti di lavoro, e quindi reddito e che è solo grazie ad essi che ora il  nostro Paese  è in cima agli onori del mondo e bla bla bla..
I più “tecnici” e saputi rimproverano invece all’ignorante  giornalista, con tanto di dotto etimo sull’aggettivo, come il piatto in questione non fosse un vero e proprio antipasto, ma un semplice “amuse-bouche”, che i ristoranti stellati spesso servono prima degli antipasti e che, non comparendo sul conto, risulterebbero “gratuiti” (dimenticando che in realtà, il prezzo degli amuse-bouche viene poi logicamente spalmato sui prezzi delle altre portate, e che il fatto che sia invisibile sul menù non significa che non sia conteggiato).
Non mancano inoltre i soliti commenti, postati da chi la invita ad andare in trattoria o in osteria, chi le consiglia di mangiare pasta e patate con la provola,  chi, in un impeto di sdegno e disprezzo, paragona i suoi post a quelli di Salvini mentre mangia serafico le tagliatelle con il ragù.


Ma accanto a chi chiede scuse immediate da parte della Gabanelli con testa china e ginocchia sui ceci, c’è anche c’è anche qualche ramingo populista, di certo anche razzista e sovranista, che ne prende timidamente le difese: nel piatto incriminato, e in generale in molte opere degli chef, si trovano “territorio”, “stagionalità”, “radici”, “percorso” e “memoria”. C’è, insomma, la summa di questa nuova frontiera del porno che molti si ostinano a chiamare “cibo”, dice un commentatore. Altri invece, più sarcastici, affermano che da quando hanno capito che il “pesce veloce del baltico in crema di mais” altro non era che polenta e baccalà” prendono le giuste distanza dalle “opere d’arte”, mentre altri ancora mettono in guardia da quello che in effetti è diventata a tutti gli effetti una nuova religione, assolutista e rigorosa, con un solo Dio, il cibo. I cui adepti non tollerano nemmeno il minimo dissenso, pena l’esser esclusi ed esiliati per sempre e con ignominia dal consesso civile. 
Da parte mia, che posso dire? Per una volta, grazie, Milena!