Le bugie di Iginio Massari costano 100 euro al chilo.
E questo lo abbiamo detto.
E dopo giorni di rovente polemica social per il prezzo giudicato eccessivo, ecco che oggi dice la sua il divino, il maestro, lui, l’inarrivabile Iginio Massari, l’autore di cotante meravigliose bugie, o chiacchiere, o frappole o cenci che diri si voglia, con una intervista apparsa oggi sul Corriere.
In pratica, la visione del maestro dei maestri dei pasticcieri è semplice: le bugie costano 100 euro al chilo perchè sono prodotti di eccellenza, di classe, anzi, di lusso, come dice il divino senza mezzi termini.
Parte ora un piccolo pippone di microeconomia spicciola, che potrete, se volete, saltare e andare subito al paragrafo successivo, non succede niente. Il pippone vuole solo chiarire che per fortuna siamo in un’economia di mercato, e in quanto tale libera, non regolamentata da alcun ente superiore, statale o istituzionale, se non dal mercato stesso. In un’economia di questo tipo sono liberissimo di vendere, o meglio mettere sul mercato, quello che mi pare al prezzo che mi pare, anche delle bugie a mille euro il chilo, se mi va: sarai poi il mercato stesso ad autoregolamentarsi, ovvero le persone, che non comprando un tal bene al prezzo da me stabilito sbatterà il bene fuori dal mercato stesso, non acquistandolo, e conducendo il venditore a più miti consiglie e a prezzi giudicati più equi per quel bene o servizo. I beni di lusso sono ovviamente fuori da queste logiche di mercato, o meglio seguono una logica loro, a parte, che esula dallo stretto ragionamento prezzo - mercato, in quanto le persono sono disposte a pagare uno status symbol molto più del loro valore effettivo ma ..sono le bugie davvero beni di lusso? E qui già ci sarebbe da dire due parole, ma lasciamo perdere.
Pipponi economici a parte, accennerò quindi velocemente alla descrizione che Massari fa della preparazione di uno dei nostri più amati dolci tradizionali, sottolinenando che il divino ci informa che per preparare le sue bugie occorrono ben sei persone (“una che tira la pasta, tre che la modellano e due che le cuociono”), che sono tirate a uno spessore di soli due millimetri - visto che l’essere sottili è una caratteristica tipica di ogni bugia ben fatta- , che vengono fritte in olio di qualità, e che una volta fritte vengono scolate in verticale per far perdere l’olio in eccesso: a questa descrizione minuziosa si potrebbe ribattere che anche il panettiere sotto casa in qualche modo farà le sue bugie, in qualche modo tirerà la pasta sottile e che in qualche modo le friggerà pure, e che magari non lo farà proprio nell’olio lubrificante per le macchina ma utilizzerà un olio perlomeno decente; certo, forse non le metterà a scolare l’olio in verticale, ma in qualche modo anche lui farà, visto che sono rare le volte in cui ho trovato delle bugie zuppe di olio.
L’argomento che però mi importa maggiormente non è riguardo al lusso nè riguardo alla qualità delle materie prime o al procedimento delle meravigliose bugie, ma è la “dotta” distinzione che il nostro fa per giusticare il prezzo delle sue meraviglie. Dice il maestro: le mie bugie non sono care ma costose. O meglio, dice esattamente che “caro si dice di un prodotto che non vale il prezzo che ha", mentre “costoso si riferisce a qualcosa di eccellente che non tutti si possono permettere”, continuando poi con un paragone molto esplicativo: “è la stessa differenza che c’è tra una pesrona idiota e una intelligente: restano due esseri umani, che però sono disanti anni luce”. In pratica, per chi non lo avesse capito, dando bellamente degli idioti a coloro che, secondo la sua definizione, ritengono le sue bugie non costose ma care (secondo la sua definizione dei due termini).
Ecco, bisogna dire che è da diverso tempo, direi qualche anno, che questa bislacca e del tutto soggettiva distinzione tra caro e costoso viene propinata a ogni piè sospinto, e fatta passare come una dotta distinzione di cui solo noi, biechi ignorantoni, eravamo all’oscuro.
E io, che non sono mai stata del tutto convinta di questa novella teoria in base alla quale “caro” sarebbe ciò che ha un prezzo troppo elevato rispetto a ciò che offre (in pratica, ciò che non vale il prezzo a cui è venduto) mentre costoso sarebbe un qualcosa che ha un prezzo sì elevato ma giustificato dal bene o servizio offerto, mi sono presa la briga di andare a verificare qualche fonte attendibile - cioè che non siano pareri di blogger o post su Facebook - per verificare l’origine di questa differenza tra i due termini.
E, meraviglia delle meraviglie, non l’ho trovata. Nei maggiori dizionari o enti che si occupano di lingua italiana, e parlo per esempio dell’Accademia della Crusa o dell’Enciclopedia Treccani, così come negli innumerevoli dizionari online, tale distinzione tra caro e costoso non c’è. Anzi, “caro” è sempre indicato come sinonimo di “costoso”. E’ solo andando giù giù in basso, nei blog che trattano gli argomenti più disparati ma non di linguistica - dalle auto al cibo, dall’uncinetto alla pittura - , che si trova questa dicotomia; ce lo spiegano per esempio un blog di auto, uno di ricette e altre cose così: fonti non esattamente attendibili per dare un parere su una questione linguistica che abbia un qualche valore. In particolare, per la Crusca la questione fino ad ora non si è posta, infatti non appare alcun parere su questo argomento, e questo già parrebbe un chiaro segnale della non sussistenza di tale differenza, mentre per la Treccani il termine “caro” - derivato dal latino “carus”, cioè amato, diletto - , viene assimilato a “ricercato”, “costoso”, senza alcuna differenziazione in base al valore percepito o reale di qualsivoglia bene o servizio.
Se quindi di tale dicotomia (wow, che bel termine!) si vuole parlare, se davvero ci si vuole riempire la bocca accampando dotte dissertazioni senza comprovati fondamenti, si dovrebbe almeno cercare di trovare una fonte, un parere, un giudizio linguistico autorevole e non solo di comodo, o dettato dalla moda o inventato di sana pianta da qualche fenomeno in rete. Possiamo cioè sì ammettere che forse tale differenza tra i due termini da qualcuno sarà percepita, ma sarà sempre e solo un parere personale, un’impressione, una percezione soggettiva, almeno fino a che questa non diventerà (se mai lo diventerà) così diffusa e popolare da essere universalmente riconosciuta dalla maggioranza dei parlanti e meritarsi così una nota, una menzione, una specifica distinzione nel vobolario italiano, che riporti e legittimi tale distinzione di significato nero su bianco, cosa che al momento non è successa (esattamente come è successo al termine “petaloso” in voga alcuni anni fa). Di conseguenza, possiamo liberamente dire che ad oggi le bugie di Massari sono giudicate da molti care o costose, nella stessa medesima accezione: ovvero vendute a un prezzo troppo elevato rispetto al loro valore intrinseco, sgocciolatura in verticale o meno. Oppure, possiamo giudicarle una sorta di status symbol, un bene di lusso da ostentare con parenti e amici. Ecco, forse è questa la definizione migliore, la più corretta e anche la più veritiera.
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