venerdì 17 maggio 2019

IL DECALOGO DI MICHELE FERRERO: LA CHIAVE DEL SUCCESSO E' IL RISPETTO (e no, non la Nutella...)


Il Gruppo Ferrero non è solamente il nostro pusher di Nutella abituale, ma è oggi è un colosso a livello mondiale, con milioni di fatturato e migliaia di dipendenti sparsi in tutto il mondo.
Dalla prima piccola bottega aperta nel 1946 da Pietro Ferrero ad Alba, oggi la Ferrero è una multinazionale che impiega oltre 20.000 dipendenti in tutti gli stabilimenti in giro per il mondo, e che prosegue una politica di acquisizioni che ha visto, negli ultimi anni, inglobare molte delle maggiori realtà dolciarie internazionali, come l’americana Fannie May nel 2017, le attività dolciarie di Nestlè nel 2018 per finire ai giorni nostri, in cui il gruppo ha annunciato l’acquisizione del comparto biscotti e gelati della Kellog Company per 1,3 miliardi di dollari.
Ma tutto questo successo non è dovuto al caso, e si poggia su basi solide, concrete, che Michele Ferrero, mancato nel 2015 - il padre dell’attuale Presidente del gruppo, Giovanni, e figlio del fondatore, Pietro - ha messo a punto più di 40 anni fa. La base, infatti, del successo inscalfibile e della continuità nel tempo di questa grande impresa non sta non solo nella qualità dei prodotti, nei processi di produzione o in una indiscutibile abilità gestionale (e no, non sta nemmeno in quella magia di prodotto chiamata Nutella, oggi sempre più attaccata da più fronti ma che sempre rimane inscalfibile nei nostri cuori e nei nostri gusti), ma anche e soprattutto nel trattamento della prima tra le risorse con cui una azienda si trova a doversi rapportare: il personale. O meglio, le persone.
Prima della qualità delle materie prime, prima della tecnologia sempre all’avanguardia, prima delle tecniche di marketing e delle varie politiche aziendali, la Ferrero ha sempre messo davanti le persone, gli operai, coloro che lavorano all’interno dell’azienda, trattandoli non sempliceente come “fornitori di lavoro”  ma come persone di cui aver cura, importanti, quasi di famiglia; non una massa indistinta di lavoratori senza nessuna identità ma persone vicine, a cui porre attenzione e da fare sentire partecipi.
Per questo il decalogo per i manager dell’azienda – coloro che hanno a che fare tutti i giorni con i lavoratori - messo a punto da Michele Ferrero quaranta anni fa è probabilmente quello che sta alla base del successo e della solidità dell’azienda, perché sposta il fucus dal prodotto, e dal reddito, alle persone, alla gente che lavora.
Una politica comune a diversi tra i grandi capitani d’industria del passato (tra cui non possiamo non ricordare  l'Avvocato, Gianni Agnelli, che offrì alla propria manodopera tutta una serie di benefit e agevolazioni – ad esempio le borse di studio per i figli dei dipendenti, gli accessi agevolati a impianti sportivi, le colonie estive e  i regali di fine anno per i figli dei dipendenti, senza dimenticare il classico orologio per i 40 anni in azienda conservato gelosamente dagli "anziani Fiat" – tesi ad avvicinare la proprietà alle maestranze) e che è alla base di una azienda etica, mirata non solo al risultato ma anche alle condizioni di chi presta la sua opera al suo interno.
Per questo le “massime da seguire nei contatti con il personale" (questo il nome con cui è conosciuto il decalogo all'interno dell'azienda) stilato da Michele Ferrero agli inizi dell'avventura è ancora oggi attualissimo.  Perchè nessuna azienda può prescindere da coloro che vi lavorano e che contribuiscono ogni giorno al successo del prodotto. E per questo il primo consiglio con cui si apre il decalogo per i manger è di estrema imporatanza: “Quando parli con un individuo ricorda: anche lui è importante”.
Ecco: Ferrero, con il suo decalogo, dà valore a un fattore che è il primo e il più importante in una azienda come in ogni altra attività: il fattore umano.
Ed ecco sotto riportato il decalogo (in realtà composto di 17 punti) di Michele Ferrero, così come riportato dalla Gazzetta di Alba e da Forbes: non vi troverete massime mirabolanti, postulati di etica o tecniche sofisticate di gestione del personale: si tratta solo di semplici considerazioni, di consigli che hanno come unica base un prinicipio che dovrebbe essere tanto ovvio e naturale quanto oggi, invece, è disatteso: il rispetto.

LE LINEE GUIDA DI MICHELE FERRERO PER IL TRATTAMENTO DEI LAVORATORI IN AZIENDA

1-Nei vostri contatti mettete i vostri collaboratori a loro agio:
-Dedicate loro il tempo necessario e non le “briciole”
-Preoccupatevi di ascoltare ciò che hanno da dirvi
-Non date loro l’impressione che siate sulle spine
-Non fateli mai sentire “piccoli”
-La sedia più comoda del vostro ufficio sia destinata a loro

2- Prendete decisioni chiare e fatevi aiutare dai vostri collaboratori, essi crederanno nelle scelte a cui hanno concorso
3- Rendete partecipi i collaboratori dei cambiamenti e discutetene prima della loro attuazione con gli interessati
4- Comunicate gli apprezzamenti favorevoli ai lavoratori, quelli sfavorevoli comunicateli solo quando necessario, in quest’ultimo caso non limitatevi a una critica, ma indicate ciò che dovrà essere fatto nell’avvenire perché serva a imparare
5- I vostri interventi siano sempre tempestivi: “Troppo tardi” è pericoloso quanto “Troppo presto”
6- Agite sulle cause più che sul comportamento
7- Considerate i problemi nel loro aspetto generale e non perdetevi nei dettagli, lasciate ai dipendenti un certo margine di tolleranza
8- Siate sempre umani
9- Non chiedete cose impossibili
10- Ammettete serenamente i vostri errori, vi aiuterà a non ripeterli.
11- Preoccupatevi di quello che pensano di voi i vostri collaboratori.
12- Non pretendete di essere tutto per i vostri collaboratori, in questo caso finireste per essere niente.
13- Diffidate di quelli che vi adulano, a lungo andare sono più controproducenti di quelli che vi contraddicono.
14- Date sempre quanto dovete e ricordate che spesso non è questione di quanto, ma di come e di quando.
15- Non prendete mai decisioni sotto l’influsso dell’ira, della premura, della delusione, della preoccupazione, ma demandatele a quando il vostro giudizio potrà essere più sereno
16- Ricordate che un buon capo può far sentire un gigante un uomo normale, ma un capo cattivo può trasformare un gigante in un nano
17- Se non credete in questi principi, rinunciate ad essere capi
Crediti: Forbes, Gazzetta di Alba

I BROCCOLI BLOCCANO I TUMORI: SCOPERTA LA MOLECOLA KILLER




I broccoli bloccano lo sviluppo dei tumori.
Questo è quanto emerge da una nuova ricerca pubblicata sulla rivista scientifica “Science”, e condotta una équipe del Cancer Research Institute facente parte del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston guidata dall’oncologo Pier Paolo Pandolfi.
Secondo i risultati della ricerca, nei broccoli è presente una molecola capace di contrastare l’enzima responsabile della crescita di molti tipi di tumori, tra cui quelli al seno e alla prostata.
La molecola killer, l'indolo-3-carbinolo (I3C) -  presente non solo nei broccoli ma in molti vegetali della famiglia delle crucifere, come cavoli, cavolfiori o cavoletti di Bruxelles - , ha dato “risultati sorprendenti”:  sugli animali testati, infatti, è stata rilevata una significativa riduzione dei tumori sia come dimensioni che come peso, non avendo inoltre evidenziato alcun tipo di tossicità o effetti collaterali negativi.
Attenzione, però: non vi basterà mangiare un piatto di pasta e broccoli una volta al giorno per godere dell’effetto anti-tumorale: perché la molecola sia in grado di inibire la crescita dei tumori, di broccoli ne dovrete mangiare circa sette chili al giorno. E per quanto siano buone le orecchiette con i broccoli, l’impresa si rivela davvero ardua. Non per nulla si sta pensando di mettere a punto un nuovo tipo di molecola, potenziata rispetto a quella attualmente già in commercio sotto forma di integratore alimentare, per cercare di sfruttare i benefici di questa nuova e importante scoperta.
E in fondo, anche questa è una buona notizia: sette chili di broccoli al giorno sono una dose in grado di scoraggiare anche il vegano più convinto.

domenica 12 maggio 2019

PER IL NEW YORK TIMES LO SPRITZ NON E' BUONO




"Lo Spritz non è buono”.
Non usa mezzi termini il New York Times per descrivere l’aperitivo più gettonato degli ultimi anni, quello che scorre a fiumi nelle calde serate estive tra gruppi di Millennials e non, quello che ormai è diventato uno dei cocktail più consumati a livello mondiale, grazie anche a una poderosa campagna di marketing che ne ha decretato in parte l’attuale, enorme successo.
“Il dolce aperitivo – sostiene la cronista del New York Times, Rebekah Peppler, riportando le parole di Katie Parla, una nota autrice di libri di cucina statunitense – è in genere preparato con Prosecco di  pessima qualità, acqua di soda e una smisurata fettona di arancia, il che lo fa risultare come un semplice Capri Sun (marchio americano di succhi di frutta) da bere dopo una partitella di calcio in un giorno caldo. Non un granchè”.
E come se non bastasse, anche se il Prosecco utilizzato fosse il migliore, le cose non cambierebbero un granchè, perchè l'autrice americana se la prende pure con l'altro ingrediente essenziale dello Spritiz, l'Aperol, reo di regalare alla bevanda un sapore troppo zuccherino: “Nonostante contenga ingredienti come arance amare e rabarbaro, che mascherano il gusto troppo dolce, l’effetto finale è quello di uno sciroppo”, continua imperterrita l'autrice.
E per finire in bellezza, miss Parla se la prende pure con i camerieri, per infangare il buon  nome dello Spritz: “se l’Aperol Spritz non viene servito immediatamente, il ghiaccio si scioglie, annacquando il tutto”.
Insomma, non ne va bene una, per il New York Times, del nostro aperitivo nazionale.  Ma se possiamo essere d'accordo su uno degli appunti riportati, ovvero della pessima qualità del Prosecco che spesso in bar e baretti viene utilizzato per soddisfare le fauci assetate di orde di ragazzi, non per questo ci sentiamo di poter degradare uno degli aperitivi più apprezzati e popolari a semplice operazione di marketing ben riuscita. Lo Spritz, infatti, vanta radici gloriose e lontane: furono i soldati austriaci di stanza in Veneto alla fine dell'800 a inventare il "progenitorie" dello Spritz, a diluire il loro bicchiere di vino spruzzandoci (“spritz”, in tedesco) della semplice acqua naturale. L'acquadivenne gasata nei primi anni '20 e negli anni '30 venne aggiunto il liquore. Il Prosecco entrò in scena solo recentemente,  negli anni ’90, e ai nostri giorni, vale a dire dal 2003, la Campari, detentrice del marchio Aperol, diede inizio a una massiccia campagna di marketing a livello mondiale per la promozione dello Spritz con Aperol (infatti è diffusa anche la versione con Campari, più dolce, per quanto meno praticata), anche utilizzando corsi per bartender professionisti e con show vari nei bar e nei ritrovi di maggior interesse, con fiumi di Spritz generosamente offerti. Grazie anche a questa promozione, oggi lo Spritz è uno dei cocktail più diffusi all  over the world, e sinceramente, derubricare il suo successo a mera campagna di marketing ben riuscita appare ingeneroso: se tante persone nel mondo bevono Sptriz durante le loro serate con gli amici, non può essere imputato solo a pubblicità o promozione, ma anche a una ricetta vincente, gradevole, in altre parole azzeccata. Attualmente, la ricetta codificata dall'associazione bartender è data da tre parti di Prosecco, due di Aperol e una di soda, il tutto servito con una fetta di arancia, ed è in questa forma che lo Spritz ha letteralmente fatto terra bruciata attorno a sé negli ultimi anni, spodestando di netto, per popolarità e diffusione, cocktail ben più noti e blasonati; per l’umile Spritz, che è anche uno dei cocktail più semplici da preparare (basta un semplice bicchiere e una fetta d’arancia, senza tante acrobazie o attrezzature da bartender professionisti) è una vera vittoria a mani basse,  e dove passa lui non ce n’è per nessuno.
Nemmeno per Negroni o Margarita.

sabato 4 maggio 2019

BURGER KING METTERA' IN VENDITA UN HAMBURGER DI CARNE VEGANA




Finalmente anche vegani e vegetariani potranno entrare in un Burger King e mangiarsi in santa pace il loro bell’hamburger, senza patemi d’animo e senza il devastatne pensiero di essere la causa del genocidio di teneri vitellini per un motivo così bieco come il proprio sostentamento.
Burger King, infatti, una delle più diffuse catene di hamburgherie a livello mondiale, ha stretto proprio in questi giorni un accordo con Impossible Food, una delle maggiori aziende produttrici di “carne vegana2".  Burger King ha infatti fiutato l’aria che tira, verifiato il generale innamoramnto per tutto ciò che è "veg" e ha scommesso su un segmento di domanda, quello di carne “vegana” appunto, che potrebbe tra non molto tempo diventare un rilevantissimo settore mainstream. Non per nulla, dopo una prova che ha avuto moltissimo successo a Saint Louis, nel Missouri, Burger king ha annunciato che immetterà un hamburger a base di “fake meat” in più di 7000 hamburgherie sparse negli USA, e ovviamente c'è da star certi che poco dopo lo stesso farà con gli altri store sparsi ovunque nel mondo.
Un vero boom, quello della carne vegana, tanto che la società ha raggiunto il limite della sua capacità produttiva, e ha dovuto informare i propri clienti di non poter essere in grado, almeno fino a metà maggio, di soddisfare la domanda, scatenando una vera corsa all’approvvigionamento da parte di diversi locali e caffè vegani, che hanno letteralmente dato fondo alle scorte dell’azienda. In Asia, le vendite di Impossible Foods sono addirittura triplicate, e solo nel giro di questi ulitmi mesi.
La società sta ora lavorando per aumentare la capacità produttiva e soddisfare la nuova domanda, e ha anche annunciato che aumenterà il numero di dipendenti nel suo stabilimento californiano di Oakland, portandolo a tre linee di produzione.
D’altronde, anche Beyond Meat, l’altro colosso nella produzione di carne vegetale, ha raggiunto il valore sitmato di un miliardo e mezzo di dollari, mentre entro il 2015 il valore del mercato dei prodotti sostituivi della carne dovrebbe arrivare a 7,5 miliardi; anche Nestlè è entrata nel settore con i suoi nuovi Incredible e Avesome burger.
Un successo dovuto non solo a questioni puramente etiche, ma anche alla percezione di un cibo “trendy e cool”, in pratica un nuovo status symbol alla portata di tutti: non per nulla da numerose incheste è stato rilevato come i nuovi interessi delle fasce di popolazione più agiate non siano più diretti verso i classici beni di lusso ma che si rivolgano invece a un cibo sano, bio e rispettoso dell’ambiente, meglio ancora se alla moda.
E intato i produttori di carne vegana gongolano.

Fonti: Eater

venerdì 14 dicembre 2018

LO STRAPOTERE DELLA PASTIERA: UN MISTERO ANCORA IRRISOLTO





E’ lei, la pastiera napoletana, che si aggiudica il primato di ricetta più cercata dagli italiani per l’anno 2018, così come riportato da Google Trends, la classifica delle top ten dei vari settori che ogni anno il portale di ricerca pubblica nel mese di dicembre.
E’ proprio la pastiera, qundi, la ricetta che gli italiani si sono più affannati a cercare durante quest’anno che sta perfinire, e che è riuscita a spodestare persino un peso massimo come il tiramisù, che  di fronte a tanto successo si è dovuto accontentare di un misero secondo posto, davanti alla sempreverde pasta alla carbonaa, al terzo gradino sul podio.
In effetti, bisogna riconoscere che la pastiera napoletana la fa da padrona, su Google, da almeno un paio d’anni, considerato che già lo scorso anno si era piazzata al vertice con un decorosissimo terzo posto, sorpassata solo dal migliaccio, sempre napoletano, e dalla carbonara, mentre nell’anno ancora precedente, il 2016, ancora nonfigurava tra le magnifiche dieci ricette più cliccate dagli italiani.
In realtà, però, classifiche a parte, è ormai già da diversi anni che il dolce partenopeo è in cima alle classifiche dei dolci più amati, fotografati e instagrammati dagli italiani. Il tipico dolce napoletano, che un tempo veniva preparato principalmente durante il periodo pasquale, è infatti oggi non solo di moda tutto l’anno, ma è anche diventato un po’ il simbolo del dolce pasquale in tutta Italia, e non solo in Campania, spiazzando ogni altro, colombe e agnellini  di marzapane compresi. Questo probabilmente anche grazie al fatto che il grano necessario a preparare il ripieno del dolce è oggi reperibile facilmente in ogni supermercato, già cotto e pronto all’uso nel suo bel barattolo, mentre un tempo la lavorazione, che prevedeva di cuocere lentamente i chicchi di grano nel latte fino a renderli morbidi e cremosi, era senz’altro più lunga e complessa.
O forse, il motivo di tanto successo sta nel suo aspetto, genuino e rassicurante, un aspetto che sa di buono, di casa, di semplicità, merce che oggi va per la maggiore, almeno a parole e in foto. Insomma, fatto sta che per un motivo o per l’altro, la pastiera oggi è diventata “Il” dolce italiano per eccellenza, non solo per il periodo di Pasqua ma per tutto l’anno, come testimonia appunto Google Trends.
Giusto? Sbagliato? Siamo davvero tutti d’accordo sulla supremazia di questo dolce al di sopra di ogni altro, al di sopra di panettoni, colombe, cremosi e tiramisù?
Bene, sappiate allora che chi scrive non è d’accordo. Per nulla.
Ho assistito per anni, sui social, al dilagare di foto di pastiere propinate in ogni salsa, ne ho assaggiate diverse versioni, sia casalinghe fatte da nonne partenopee doc, sia ordinate nelle migliori, e anche peggiori, pasticcerie di Torino, che può vantare diversi maestri pasticcieri che le pastiere, come qualsiasi altro dolce, le sanno fare allaperfezione. E per me il verdetto è sempre stato quello: la pastiera non mi piace. Troppo massiccio il ripieno con il grano, troppo impegnativa lo sforzo che la consistenza che la frolla e la crema di grano e ricotta richiedono alle mie fauci pur non delicate. Insomma, in una sola parola, troppo pesante. Vuoi mettere con una morbida cassata, anche fatta in casa, con il suo bel bordo fatto di morbido marzapane preparato in quattro e quattr’otto con zucchero a velo e mandorle, con il suo avvolgente ripieno a base di ricotta e quel sapore agrumato dato dai canditi e dall’acqua di fiori d’arancio? Vuoi mettere, anche senza scadere in eccessive decorazioni barocche e ridondanti, la scintillante bellezza della zuccata color dell’oro, del verde-acqua del cedro candito, del bianco niveo della ricotta fresca di pecora? E che dire della cassata al forno, la versione primigenia della cassata, anche lei di una delicatezza e di una morbidzza senza pari? Ecco, quando io penso alla cassata, alla sua morbida crema, al suo profumo e alla sua consistenza ineguagliabile, non posso fare a meno di chiedermi perché. Perché la pastiera sta avendo un così enorme successo pur essendo un dolce, a mio modesto parere, non certo eccezionale, mentre la cassata è nettamente staccata in Google Trends, su Instagaram e sui social vari.  Il motivo davvero non lo comprendo, e in fondo, da brava mezza siciliana, me ne rammaraico. Ma forse, la soluzione del mio dilemma sta tutta, semplicmente, nella parole di un  noto detto: “de gustibus non disputandum est”.
Proprio per questo io continuo, e continuerò  imperterrita,  a preferire sempre, comunque e dovunque, a una fetta di pesante pastiera, un boccone di morbida, soave, delicata cassata siciliana.

venerdì 7 dicembre 2018

IL PANETTONE ARTIGIANALE? TUTTA UN'INVENZIONE


Il panettone è morto, viva il panettone
Sì, perchè il panettone, quello vero, quello originale, è morto, lo sapete?
Attenzione, però, quello che è morto, scalzato dal fratello artigianale, è quello industriale, quello con cui tutti noi, che non abbiamo esattamente cinque o sei anni ma qualche decennio in più, siamo cresciuti. 
Già, perché forse non tutti lo sanno, ma il panettone originale dell’era moderna, e con questa intendo dire il secolo scorso, il panettone che si acquistava esclusivamente in negozi e supermercati e con cui i datori di lavoro erano soliti omaggiare i propri dipendenti a Natale, era proprio quello lì, quello che oggi viene definito con disprezzo “industriale” e che ti tirano dietro al supermercato a due euro al chilo: meno del pane.
Ebbene, proprio quello è il vero panettone così come lo conosciamo oggi: alto, morbido e soffice, e che nulla ha a che vedere con la storiella del “pan de Toni” che ci propinano da ogni parte. O meglio, una sorta di panettone, cioè di un pane dolce, era probabilmente presente anche nei secoli passati, ma non era certo quello che conosciamo noi oggi: era più verosimilmente una sorta di pane schiacciato, basso e ben poco soffice, per non dire duretto (un po’ come il pan dei pescatori ligure mal fatto), insporito con zucchero, burro e un po’ di uvetta candita. Nulla a che fare con il “nostro” panettone: quello, lo ha inventato Angelo Motta che nel 1930 o giù di lì, pensò bene di produrre i suoi strani panettoni, alti e soffici, in modo industriale. Stessa cosa che fece Gioachino Alemagna sei o sette anni dopo. Passata la seconda guerra mondiale, il panettone industriale inventato da Angelo Motta cominciò ad avere un successo senza fine, tanto da essere identificato in tutta Italia, e non solo, come “il” dolce natalizio per eccellenza, almeno fino all’avvento del pandoro, altra invenzione ma stavolta veronese, che iniziò a contendergli il primato a partire dagli anni’70 del secolo scorso. Insomma, dagli anni ’50 in avanti, il panettone così come “reinventato” o meglio inventato di sana pianta da Angelo Motta, nelle sue belle scatole di cartone colorato, era il simbolo del benessere, del buon cibo, della ritrovata agiatezza dopo gli anni della guerra e dell’immediato secondo dopoguerra; e anche di una certa opulenza a portata praticamente di tutte le tasche. Ed era solo ed esclusivamente industriale. Certo, qualche ardito pasticciere o panettiere esponeva nelle sue vetrine dei panettoni artigianali, ma la vulgata comune era che i panettoni di pasticceria non fossero affatto buoni, e che in molti casi fossero semplicmente panettoni industriali scartati dal loro imballo colorato e venduti come “artigianali”.
Ma oggi, e con oggi intendo dire da circa dieci, quindici anni a questa parte, il panettone industriale ha visto declinare pian piano il suo successo. E soprattutto ora, nell’era del culto del cibo, del genuino, dell’eccellenza a tutti i costi, il panettone del supermercato non attira più nessuno, se non come dolce da inzuppo a bassissimo costo di cui fare scorta per intingere nel latte da Natale fino a febbraio. Siamo ormai troppo benestanti, troppo ricchi e troppo “in” per lasciarci ancora ammaliare da semplici dolci industriali con le loro squillanti confezioni multicolor, ed è proprio in questo clima che si sono inseriti i panettoni artigianali. Ormai, tutti fanno panettoni artigianali, dalla panetteria diertro l’angolo ai pasticcieri più affermati per finire con gli chef, passando per varia umanità che, munita di modernissime attrezzature da cucina e armata di pasta madre risalente all’epoca delle guerre puniche, se li produce da sola a casa, con risultati non disprezzabili (a volte).
Ebbene, per quanto quindi il panettone artigianale sia quindi a tutti gli effetti né più né meno che una trovata di questi ultimi anni, per quanto sia figlio ricco di un padre miserando, cioè il panettone industriale, bisogna riconoscere che si è inserito in una fascia di popolazione che lo ha accolto a braccia aperte, e che si è creato un suo segmento di mercato popolato da veri e propri fan. La sottoscritta, ad esempio, è ora una grande estimatrice dei panettoni artiginali: infatti, mentre il panettone classico, industriale, non mi ha mai fatto impazzire, anzi, gli preferivo di gran lunga il pandoro, i panettoni di pasticceria ora mi hanno letteralmente conquistata: morbidi, soffici ma rimanendo comunque umidi, con il gusto marcato di burro, i canditi “veri” e succosi, e non i soliti pezzi di plastica colorati, oltre ovviamente a una attenta e curata preparazione, mi hanno convertito definitivamente al panettone del pasticciere. Che volendo ricorda più un lievitato soffice, una morbida brioche formato magnum, ricca, sontuosa, appagante, da gustarsi e godersi con pace e tranquillità. Insomma, tutt’altra cosa rispetto al povero panettone inventato un secolo fa da Angelo Motta. 
Ma che pure un merito ce l’ha: quello di aver aperto la strada a queste moderne delizie, a questi panettoni artigianali che davvero sono un piacere per gli occhi e per il palato. In fondo, se non ci fosse stato l’umile panettone industriale inventato di Angelo Motta, forse oggi non ci sarebbero nemmeno queste moderne meraviglie dell’arte bianca.
E sarebbe un vero peccato.


Immagini: Firenze Today

Contributi:  Alberto Grandi, “Denominazione di origine inventata”, ed. Mondadori.