venerdì 28 febbraio 2025

LE BUGIE DI MASSARI A 100 EURO AL CHILO: CARE O COSTOSE, PER ME PARI SONO

 


Le bugie di Iginio Massari costano 100 euro al chilo. 

E questo lo abbiamo detto.

E dopo giorni di rovente polemica social per il prezzo giudicato eccessivo, ecco che oggi dice la sua il divino, il maestro, lui, l’inarrivabile Iginio Massari, l’autore di cotante meravigliose bugie, o chiacchiere, o frappole o cenci che diri si voglia, con una intervista apparsa oggi sul Corriere. 

In pratica, la visione del maestro dei maestri dei pasticcieri è semplice: le bugie costano 100 euro al chilo perchè sono prodotti di eccellenza, di classe, anzi, di lusso, come dice il divino senza mezzi termini. 

Parte ora un piccolo pippone di microeconomia spicciola, che potrete, se volete, saltare e andare subito al paragrafo successivo, non succede niente. Il pippone vuole solo chiarire che per fortuna siamo in un’economia di mercato, e in quanto tale libera, non regolamentata da alcun ente superiore, statale o istituzionale, se non dal mercato stesso. In un’economia di questo tipo sono liberissimo di vendere, o meglio mettere sul mercato, quello che mi pare al prezzo che mi pare, anche delle bugie a mille euro il chilo, se mi va: sarai poi il mercato stesso ad autoregolamentarsi, ovvero le persone, che non comprando un tal bene al prezzo da me stabilito sbatterà il bene fuori dal mercato stesso, non acquistandolo, e conducendo il venditore a più miti consiglie e a prezzi giudicati più equi per quel bene o servizo. I beni di lusso sono ovviamente fuori da queste logiche di mercato, o meglio seguono una logica loro, a parte, che esula dallo stretto ragionamento prezzo - mercato, in quanto le persono sono disposte a pagare uno status symbol molto più del loro valore effettivo ma ..sono le bugie davvero beni di lusso? E qui già ci sarebbe da dire due parole, ma lasciamo perdere.

Pipponi economici a parte, accennerò quindi velocemente alla descrizione che Massari fa della preparazione di uno dei nostri più amati dolci tradizionali, sottolinenando che il divino ci informa che per preparare le sue bugie occorrono ben sei persone (“una che tira la pasta, tre che la modellano e due che le cuociono”), che sono tirate a uno spessore di soli due millimetri - visto che l’essere sottili è una caratteristica tipica di ogni bugia ben fatta- , che vengono fritte in olio di qualità, e che una volta fritte vengono scolate in verticale per far perdere l’olio in eccesso: a questa descrizione minuziosa si potrebbe ribattere che anche il panettiere sotto casa in qualche modo farà le sue bugie, in qualche modo tirerà la pasta sottile e che in qualche modo le friggerà pure, e che magari non lo farà proprio nell’olio lubrificante per le macchina ma utilizzerà un olio perlomeno decente; certo, forse non le metterà a scolare l’olio in verticale, ma in qualche modo anche lui farà, visto che sono rare le volte in cui ho trovato delle bugie zuppe di olio. 

L’argomento che però mi importa maggiormente non è riguardo al lusso nè riguardo alla qualità delle materie prime o al procedimento delle meravigliose bugie, ma è la “dotta” distinzione che il nostro fa per giusticare il prezzo delle sue meraviglie. Dice il maestro: le mie bugie non sono care ma costose. O meglio, dice esattamente che “caro si dice di un prodotto che non vale il prezzo che ha", mentre “costoso si riferisce a qualcosa di eccellente che non tutti si possono permettere”, continuando poi con un paragone molto esplicativo: “è la stessa differenza che c’è tra una pesrona idiota e una intelligente: restano due esseri umani, che però sono disanti anni luce”. In pratica, per chi non lo avesse capito, dando bellamente degli idioti a coloro che, secondo la sua definizione, ritengono le sue bugie non costose ma care (secondo la sua definizione dei due termini). 

Ecco, bisogna dire che è da diverso tempo, direi qualche anno, che questa bislacca e del tutto soggettiva distinzione tra caro e costoso viene propinata a ogni piè sospinto, e fatta passare come una dotta distinzione di cui solo noi, biechi ignorantoni, eravamo all’oscuro. 

E io, che non sono mai stata del tutto convinta di questa novella teoria in base alla quale “caro” sarebbe ciò che ha un prezzo troppo elevato rispetto a ciò che offre (in pratica, ciò che non vale il prezzo a cui è venduto) mentre costoso sarebbe un qualcosa che ha un prezzo sì elevato ma giustificato dal bene o servizio offerto, mi sono presa la briga di andare a verificare qualche fonte attendibile - cioè che non siano pareri di blogger o post su Facebook - per verificare l’origine di questa differenza tra i due termini. 

E, meraviglia delle meraviglie, non l’ho trovata. Nei maggiori dizionari o enti che si occupano di lingua italiana, e parlo per esempio dell’Accademia della Crusa o dell’Enciclopedia Treccani, così come negli innumerevoli dizionari online, tale distinzione tra caro e costoso non c’è. Anzi, “caro” è sempre indicato come sinonimo di “costoso”. E’ solo andando giù giù in basso, nei blog che trattano gli argomenti più disparati ma non di linguistica - dalle auto al cibo, dall’uncinetto alla pittura - , che si trova questa dicotomia; ce lo spiegano per esempio un blog di auto, uno di ricette e altre cose così: fonti non esattamente attendibili per dare un parere su una questione linguistica che abbia un qualche valore. In particolare, per la Crusca la questione fino ad ora non si è posta, infatti non appare alcun parere su questo argomento, e questo già parrebbe un chiaro segnale della non sussistenza di tale differenza, mentre per la Treccani il termine “caro” - derivato dal latino “carus”, cioè amato, diletto - , viene assimilato a “ricercato”, “costoso”, senza alcuna differenziazione in base al valore percepito o reale di qualsivoglia bene o servizio.

Se quindi di tale dicotomia (wow, che bel termine!) si vuole parlare, se davvero ci si vuole riempire la bocca accampando dotte dissertazioni senza comprovati fondamenti, si dovrebbe almeno cercare di trovare una fonte, un parere, un giudizio linguistico autorevole e non solo di comodo, o dettato dalla moda o inventato di sana pianta da qualche fenomeno in rete. Possiamo cioè sì ammettere che forse tale differenza tra i due termini da qualcuno sarà percepita, ma sarà sempre e solo un parere personale, un’impressione, una percezione soggettiva, almeno fino a che questa non diventerà (se mai lo diventerà) così diffusa e popolare da essere universalmente riconosciuta dalla maggioranza dei parlanti e meritarsi così una nota, una menzione, una specifica distinzione nel vobolario italiano, che riporti e legittimi tale distinzione di significato nero su bianco, cosa che al momento non è successa (esattamente come è successo al termine “petaloso” in voga alcuni anni fa). Di conseguenza, possiamo liberamente dire che ad oggi le bugie di Massari sono giudicate da molti care o costose, nella stessa medesima accezione: ovvero vendute a un prezzo troppo elevato rispetto al loro valore intrinseco, sgocciolatura in verticale o meno. Oppure, possiamo giudicarle una sorta di status symbol, un bene di lusso da ostentare con parenti e amici. Ecco, forse è questa la definizione migliore, la più corretta e anche la più veritiera.


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https://open.substack.com/pub/cinziaalfe/p/le-bugie-di-massari-a-100-euro-al?r=q72y9&utm_campaign=post&utm_medium=web

mercoledì 26 febbraio 2025

CIAO, VITO. PER ME SARAI SEMPRE ALLA CASSA DELLA PASTICCERIA DEZZUTTO



Ciao, Vito

Ieri sera, 25 febbraio 2025, se ne è andato via Vito.  

Per chi passava da Via Duchessa Iolanda, la pasticceria Dezzutto era una tappa obbligata. Per le ottime brioches, i toast, le paste, certo, ma soprattutto per lui: Vito. Vito Matta. Alla conduzione del locale da quasi dieci anni, Vito era sempre lì, alla cassa, sorridente e bonario, sempre gentile, scherzoso, a chiacchierare, a scherazare, a fare sentire ogni singolo cliente un po’ in famiglia. Perché andare alla pasticceria Dezzuto non voleva solo dire andare a fare  una colazione veloce o una pausa pranzo al volo, ma voleva dire sentirsi accolti, anzi, avvolti da un clima sereno che davvero, e me ne rendo conto solo ora, aveva un qualcosa che ti ricordava la famiglia. E  Vito era il motore di tutto questo.  Era imponente, Vito, un tempo si diceva “ben pianatato”, per indicare una persona robusta, alta e on una mole non indifferente. Troneggiava in piedi davanti alla cassa sempre impeccabile in giacca e camicia linda e stiratissima, a volte abbronzato, e sempre aveva una parola di tutti che andava al di là del semplice saluto, e con la sua molte ti faceva sentire quasi protetto. Quando io e Gabri andavamo a prenderci uno degli ottimi toast – per Gabri erano i migliori di Torino – o qualche chantilly per fare una pausa mangereccia, Vito non mancava mai di lasciare immancabilmene la sua postazione alla cassa e tutti in clienti in coda per aiutare me e Gabri, con la sua carrozzina, a uscire e manovare la carrozzina per oltrepasasre il gradino dell’entrata. E lo faceva lui, sempre lui. Nonostante tutto il personale che girava per il locale, Vito usciva dal suo angolo cassa e veniva ad aiutare Gabri, e a scambiare due battute con lui.  Era il nostro rito. Quando io e Gabri non sapevamo dove dirigerci nei nostri giri per Torino, spesso andavamo lì, da Dezzuto, per sentirci coccolati da quel clima familiare e anche un po’..protetti: con Vito alla cassa, ogni tristezza, ogni pensiero fuggiva via. E così che è successo anche il 31 dicembre appena trascorso, nella mattinata. Mentre molti erano al mare, ai monti o chissà dove, io e Gabriele siamo andati da Dezzutto, da Vito. E Vito, come sempre era lì. Ma non aveva una delle sue solite elegantissime giacche con la camicia sotto, aveva un semplice maglionino, anonimo, quasi dimesso. Era diventato magro, Vito, tanto magro. Certo, lo era già da un po’ di tempo, da quando alla mia domanda su che dieta avesse fatto mi aveva risposto con il suo solito sorriso “semplicemente non mangio”. Ma quel giorno era davvero di una magrezza diversa, una sorta di “esilità” che non mi pareva avesse a che fare con  una dieta. Una magrezza che mi aveva fatto pensare a debolezza, forse tristezza, forse chissà cos’altro.  “Vito non sta bene”, ricordo di aver detto a Gabriele. E ricordo che mi sembrava di aver visto un’ombra di nostalgia attraversargli il viso, non più sorridente come un tempo, quando ci ha detto che dal giorno dopo il locale avrebbe chiuso, e chissà quando avrebbe riaperto, forse a gennaio o febbraio, chissà. Non ci ha detto che aveva già concluso la vendita al marchio Gerla, che lui, dietro quella cassa, anche quando il locale avrebbe riaperto, non ci sarebbe più stato.

E forse è anche per quello che ora Vito non c’è più. Ha scelto di andarsene,  una sera qualunque, forse ripensando a quegli anni in cui era un punto fermo per noi, clienti affezionati ma anche occasionali. Forse si sarà sentito solo senza il locale a cui aveva dato tanto, senza vedere dalle sue vetrine le macchine in doppia o tripla fila dei clienti che entravano a frotte nel suo locale, sempre affollatissimo a qualunque ora del giorno.

Ora la pasticceria riaprira. Ma io so già che non riuscirò per lungo tempo a varcarne la soglia, sapendo che ora, alla cassa, Vito non c’è più. E non ci sarà mai più. Ciao Vito, ti volevamo bene. Forse, se te lo avessimo detto, se tutti noi clienti te lo avessimo manifestato di più, ora saresti ancora qui, con noi, a scherzare dietro la cassa. Ma in fondo, con noi ci sarai sempre, e ogni volta che passeremo in quel piccolo tratto di Via Duchessa Jolanda non potremo non pensare a te.

"IL TEMPO DI VIVERE CON TE" di Giuseppe Culicchia



La mattina del 15 dicembre 1976 la polizia irrompe in un appartamento di Sesto San Giovanni per arrestare un brigatista rosso. Il brigatista, nel tentativo di sfuggire all’arresto, fa fuoco sui due poliziotti, uccidendoli, per venire a sua volta freddato poco dopo, durante il suo tentativo di fuga attraverso la finestra.

Il brigatista si chiamava Walter Alasia. Ed era il cugino dello scrittore Giuseppe Culicchia.

Ed è proprio per raccontare la sua storia che Culicchia pubblica oggi, a quarant’anni di distanza, il suo ultimo lavoro, “Il tempo di vivere con te”.

All’epoca dei fatti lo scrittore era un bambino di undici anni, un bambino “innamorato pazzo” di quel cugino di nove anni più grande con cui trascorreva ogni anno le vacanze estive nella casa dei nonni, a Nole, un paesino della provincia di Torino. Quel cugino alto, con gli occhi azzurri come il mare e i capelli lunghi che portava sempre l’allegria e il buonumore in famiglia, il compagno di giochi che non si stancava mai di soddisfare le sue richieste: “Walter giochiamo a pallone? Walter giochiamo a soldatini? Walter facciamo che io sono Tex e tu Kit Carson? Walter andiamo per i prati?”, in un fuoco di fila di richieste una dietro l ‘altra, senza sosta, senza virgole o segni di interpunzione. E Walter sempre lì, pronto, allegro, generoso ed entusiasta. Walter, che non si rifiuta mai di aiutare, anche se è in vacanza, Walter che sgobba, che dà il bianco alle pareti della casa degli zii, Walter, che vive a Sesto San Giovanni, la rossa Sesto, all’epoca denominata anche “la Stalingrado italiana”,  Walter che vede la madre logorarsi in fabbrica, Walter che sogna la rivoluzione, Walter che conosce Renato Curcio. Walter, che prende la scellerata decisione di arruolarsi nelle Brigate Rosse.

Walter che uccide ed è ucciso a sua volta.

Ed è qui che il ritratto familiare si intreccia con lo scenario politico dell’epoca, per formare un quadro dove si mescolano affetti familiari con spezzoni di quella che era la vita durante quegli anni, anni in cui il diffondersi di una ideologia estrema e distorta ha portato a uno dei più periodi più bui e tormentati del nostro dopoguerra: gli anni di piombo. Sono gli anni delle decine di morti ammazzati, delle rivolte, dei disordini, della nascita dei gruppi eversivi, sia di destra che di sinistra. Anni di lotte di classe, di sangue, che prendono le mosse dalla strage di Piazza Fontana, dalla morte dell’anarchico Pinelli, dall’omicidio del commissario Calabresi. E dalla nascita di uno dei gruppi più fondamentalisti e sanguinosi che la recente storia italiana ricordi: le brigate rosse.

E proprio in quel gruppo il giovane Walter entra a far parte, nel più radicale gruppo eversivo di quegli anni, un gruppo dove farà la conoscenza di Renato Curcio, che gli fornirà l’arma che impugnerà quella mattina di dicembre di tanti anni fa.

La storia che ci offre Culicchia è una storia amara e tenera nello stesso tempo: ben lontano dal celebrare un’apologia di Alasia, lo scrittore racconta brandelli di vita del cugino quando questi non era ancora “il brigatista”, “il mostro”, ma un ragazzo come gli altri, generoso e sensibile, nel cui animo però l’ideologia della lotta armata rivoluzionaria si è pian piano instaurata saldamente, riempiendolo di ideali rivoluzionari da perseguire a ogni costo, anche al prezzo di sacrificare delle vite umane. Nel caso specifico, dei due poliziotti che stavano compiendo il loro dovere come ogni giorno, il maresciallo Sergio Bazzega e il vicequestore Vittorio Padovani, che la mattina del 15 dicembre furono freddati da Walter nel suo tentativo di fuga; due mariti, due padri morti durante l’espletamento del loro dovere in una fredda mattina di dicembre, e che si sono trovati davanti un ragazzo di vent’anni con una pistola in pugno. Due uomini che Culicchia ricorda spesso e con struggimento, nelle pagine del libro, uomini che hanno offerto la loro vita in sacrificio per compiere sempre con coscienza  il loro dovere, pur conoscendo perfettamente la pericolosità del loro quotidiano: “Pensano alle loro mogli – scrive Culicchia- . Pensano ai loro figli. Pensano alla sfortuna che li ha voluti di turno per quell’operazione proprio quel giorno. Pensano che vorrebbero essere altrove e non lì, nel buio e nel gelo di quell’alba di dicembre (…). Pensano che rischiare la vita in quel modo per quattro soldi a fine mese non è giusto”. Invece, la vita l’hanno persa, e oggi non rimane che il tempo del dolore.

Ed è proprio per il rispetto che si deve a queste altre due vittime di quel periodo disperato che l’autore, nonostante l’immenso amore per il suo antico compagno di giochi, non fa del libro una sorta di celebrazione postuma del giovane brigatista o un ritratto annacquato e sdolcinato per riabilitarne in qualche modo la memoria, ma osserva e cataloga i fatti mantenendo, o cercando di mantenere per quanto possibile, obiettività ed equidistanza, senza rinunciare però a far sempre trasparire il grande amore che lo legava, e lo lega, all’amato cugino. Un amore e un volto che Culicchia cerca di ricordare e di far rivivere almeno nello spazio del racconto, andando indietro negli anni fino a quando loro due, assieme, tanto tempo prima, correvano felici per i prati del canavese, o cantavano a squarciagola Battisti divorandosi le paste di meliga o giocavano agli indiani davanti alla grande quercia. Una quercia che oggi non esiste più, come non esiste più quel tempo e quell’innocenza. Tutto spazzato via. L’infanzia, la gioventù, i grandi ideali, la bontà, tutto finito nel delirio della scelta della lotta armata, tutto finito quella fredda mattina di dicembre. Rimane solo il ricordo, un ricordo struggente e doloroso che dura quanto il tempo di qualche pagina.

E’ solo più questo, ora, “il tempo di vivere con te”.


venerdì 17 maggio 2019

IL DECALOGO DI MICHELE FERRERO: LA CHIAVE DEL SUCCESSO E' IL RISPETTO (e no, non la Nutella...)


Il Gruppo Ferrero non è solamente il nostro pusher di Nutella abituale, ma è oggi è un colosso a livello mondiale, con milioni di fatturato e migliaia di dipendenti sparsi in tutto il mondo.
Dalla prima piccola bottega aperta nel 1946 da Pietro Ferrero ad Alba, oggi la Ferrero è una multinazionale che impiega oltre 20.000 dipendenti in tutti gli stabilimenti in giro per il mondo, e che prosegue una politica di acquisizioni che ha visto, negli ultimi anni, inglobare molte delle maggiori realtà dolciarie internazionali, come l’americana Fannie May nel 2017, le attività dolciarie di Nestlè nel 2018 per finire ai giorni nostri, in cui il gruppo ha annunciato l’acquisizione del comparto biscotti e gelati della Kellog Company per 1,3 miliardi di dollari.
Ma tutto questo successo non è dovuto al caso, e si poggia su basi solide, concrete, che Michele Ferrero, mancato nel 2015 - il padre dell’attuale Presidente del gruppo, Giovanni, e figlio del fondatore, Pietro - ha messo a punto più di 40 anni fa. La base, infatti, del successo inscalfibile e della continuità nel tempo di questa grande impresa non sta non solo nella qualità dei prodotti, nei processi di produzione o in una indiscutibile abilità gestionale (e no, non sta nemmeno in quella magia di prodotto chiamata Nutella, oggi sempre più attaccata da più fronti ma che sempre rimane inscalfibile nei nostri cuori e nei nostri gusti), ma anche e soprattutto nel trattamento della prima tra le risorse con cui una azienda si trova a doversi rapportare: il personale. O meglio, le persone.
Prima della qualità delle materie prime, prima della tecnologia sempre all’avanguardia, prima delle tecniche di marketing e delle varie politiche aziendali, la Ferrero ha sempre messo davanti le persone, gli operai, coloro che lavorano all’interno dell’azienda, trattandoli non sempliceente come “fornitori di lavoro”  ma come persone di cui aver cura, importanti, quasi di famiglia; non una massa indistinta di lavoratori senza nessuna identità ma persone vicine, a cui porre attenzione e da fare sentire partecipi.
Per questo il decalogo per i manager dell’azienda – coloro che hanno a che fare tutti i giorni con i lavoratori - messo a punto da Michele Ferrero quaranta anni fa è probabilmente quello che sta alla base del successo e della solidità dell’azienda, perché sposta il fucus dal prodotto, e dal reddito, alle persone, alla gente che lavora.
Una politica comune a diversi tra i grandi capitani d’industria del passato (tra cui non possiamo non ricordare  l'Avvocato, Gianni Agnelli, che offrì alla propria manodopera tutta una serie di benefit e agevolazioni – ad esempio le borse di studio per i figli dei dipendenti, gli accessi agevolati a impianti sportivi, le colonie estive e  i regali di fine anno per i figli dei dipendenti, senza dimenticare il classico orologio per i 40 anni in azienda conservato gelosamente dagli "anziani Fiat" – tesi ad avvicinare la proprietà alle maestranze) e che è alla base di una azienda etica, mirata non solo al risultato ma anche alle condizioni di chi presta la sua opera al suo interno.
Per questo le “massime da seguire nei contatti con il personale" (questo il nome con cui è conosciuto il decalogo all'interno dell'azienda) stilato da Michele Ferrero agli inizi dell'avventura è ancora oggi attualissimo.  Perchè nessuna azienda può prescindere da coloro che vi lavorano e che contribuiscono ogni giorno al successo del prodotto. E per questo il primo consiglio con cui si apre il decalogo per i manger è di estrema imporatanza: “Quando parli con un individuo ricorda: anche lui è importante”.
Ecco: Ferrero, con il suo decalogo, dà valore a un fattore che è il primo e il più importante in una azienda come in ogni altra attività: il fattore umano.
Ed ecco sotto riportato il decalogo (in realtà composto di 17 punti) di Michele Ferrero, così come riportato dalla Gazzetta di Alba e da Forbes: non vi troverete massime mirabolanti, postulati di etica o tecniche sofisticate di gestione del personale: si tratta solo di semplici considerazioni, di consigli che hanno come unica base un prinicipio che dovrebbe essere tanto ovvio e naturale quanto oggi, invece, è disatteso: il rispetto.

LE LINEE GUIDA DI MICHELE FERRERO PER IL TRATTAMENTO DEI LAVORATORI IN AZIENDA

1-Nei vostri contatti mettete i vostri collaboratori a loro agio:
-Dedicate loro il tempo necessario e non le “briciole”
-Preoccupatevi di ascoltare ciò che hanno da dirvi
-Non date loro l’impressione che siate sulle spine
-Non fateli mai sentire “piccoli”
-La sedia più comoda del vostro ufficio sia destinata a loro

2- Prendete decisioni chiare e fatevi aiutare dai vostri collaboratori, essi crederanno nelle scelte a cui hanno concorso
3- Rendete partecipi i collaboratori dei cambiamenti e discutetene prima della loro attuazione con gli interessati
4- Comunicate gli apprezzamenti favorevoli ai lavoratori, quelli sfavorevoli comunicateli solo quando necessario, in quest’ultimo caso non limitatevi a una critica, ma indicate ciò che dovrà essere fatto nell’avvenire perché serva a imparare
5- I vostri interventi siano sempre tempestivi: “Troppo tardi” è pericoloso quanto “Troppo presto”
6- Agite sulle cause più che sul comportamento
7- Considerate i problemi nel loro aspetto generale e non perdetevi nei dettagli, lasciate ai dipendenti un certo margine di tolleranza
8- Siate sempre umani
9- Non chiedete cose impossibili
10- Ammettete serenamente i vostri errori, vi aiuterà a non ripeterli.
11- Preoccupatevi di quello che pensano di voi i vostri collaboratori.
12- Non pretendete di essere tutto per i vostri collaboratori, in questo caso finireste per essere niente.
13- Diffidate di quelli che vi adulano, a lungo andare sono più controproducenti di quelli che vi contraddicono.
14- Date sempre quanto dovete e ricordate che spesso non è questione di quanto, ma di come e di quando.
15- Non prendete mai decisioni sotto l’influsso dell’ira, della premura, della delusione, della preoccupazione, ma demandatele a quando il vostro giudizio potrà essere più sereno
16- Ricordate che un buon capo può far sentire un gigante un uomo normale, ma un capo cattivo può trasformare un gigante in un nano
17- Se non credete in questi principi, rinunciate ad essere capi
Crediti: Forbes, Gazzetta di Alba

I BROCCOLI BLOCCANO I TUMORI: SCOPERTA LA MOLECOLA KILLER




I broccoli bloccano lo sviluppo dei tumori.
Questo è quanto emerge da una nuova ricerca pubblicata sulla rivista scientifica “Science”, e condotta una équipe del Cancer Research Institute facente parte del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston guidata dall’oncologo Pier Paolo Pandolfi.
Secondo i risultati della ricerca, nei broccoli è presente una molecola capace di contrastare l’enzima responsabile della crescita di molti tipi di tumori, tra cui quelli al seno e alla prostata.
La molecola killer, l'indolo-3-carbinolo (I3C) -  presente non solo nei broccoli ma in molti vegetali della famiglia delle crucifere, come cavoli, cavolfiori o cavoletti di Bruxelles - , ha dato “risultati sorprendenti”:  sugli animali testati, infatti, è stata rilevata una significativa riduzione dei tumori sia come dimensioni che come peso, non avendo inoltre evidenziato alcun tipo di tossicità o effetti collaterali negativi.
Attenzione, però: non vi basterà mangiare un piatto di pasta e broccoli una volta al giorno per godere dell’effetto anti-tumorale: perché la molecola sia in grado di inibire la crescita dei tumori, di broccoli ne dovrete mangiare circa sette chili al giorno. E per quanto siano buone le orecchiette con i broccoli, l’impresa si rivela davvero ardua. Non per nulla si sta pensando di mettere a punto un nuovo tipo di molecola, potenziata rispetto a quella attualmente già in commercio sotto forma di integratore alimentare, per cercare di sfruttare i benefici di questa nuova e importante scoperta.
E in fondo, anche questa è una buona notizia: sette chili di broccoli al giorno sono una dose in grado di scoraggiare anche il vegano più convinto.

domenica 12 maggio 2019

PER IL NEW YORK TIMES LO SPRITZ NON E' BUONO




"Lo Spritz non è buono”.
Non usa mezzi termini il New York Times per descrivere l’aperitivo più gettonato degli ultimi anni, quello che scorre a fiumi nelle calde serate estive tra gruppi di Millennials e non, quello che ormai è diventato uno dei cocktail più consumati a livello mondiale, grazie anche a una poderosa campagna di marketing che ne ha decretato in parte l’attuale, enorme successo.
“Il dolce aperitivo – sostiene la cronista del New York Times, Rebekah Peppler, riportando le parole di Katie Parla, una nota autrice di libri di cucina statunitense – è in genere preparato con Prosecco di  pessima qualità, acqua di soda e una smisurata fettona di arancia, il che lo fa risultare come un semplice Capri Sun (marchio americano di succhi di frutta) da bere dopo una partitella di calcio in un giorno caldo. Non un granchè”.
E come se non bastasse, anche se il Prosecco utilizzato fosse il migliore, le cose non cambierebbero un granchè, perchè l'autrice americana se la prende pure con l'altro ingrediente essenziale dello Spritiz, l'Aperol, reo di regalare alla bevanda un sapore troppo zuccherino: “Nonostante contenga ingredienti come arance amare e rabarbaro, che mascherano il gusto troppo dolce, l’effetto finale è quello di uno sciroppo”, continua imperterrita l'autrice.
E per finire in bellezza, miss Parla se la prende pure con i camerieri, per infangare il buon  nome dello Spritz: “se l’Aperol Spritz non viene servito immediatamente, il ghiaccio si scioglie, annacquando il tutto”.
Insomma, non ne va bene una, per il New York Times, del nostro aperitivo nazionale.  Ma se possiamo essere d'accordo su uno degli appunti riportati, ovvero della pessima qualità del Prosecco che spesso in bar e baretti viene utilizzato per soddisfare le fauci assetate di orde di ragazzi, non per questo ci sentiamo di poter degradare uno degli aperitivi più apprezzati e popolari a semplice operazione di marketing ben riuscita. Lo Spritz, infatti, vanta radici gloriose e lontane: furono i soldati austriaci di stanza in Veneto alla fine dell'800 a inventare il "progenitorie" dello Spritz, a diluire il loro bicchiere di vino spruzzandoci (“spritz”, in tedesco) della semplice acqua naturale. L'acquadivenne gasata nei primi anni '20 e negli anni '30 venne aggiunto il liquore. Il Prosecco entrò in scena solo recentemente,  negli anni ’90, e ai nostri giorni, vale a dire dal 2003, la Campari, detentrice del marchio Aperol, diede inizio a una massiccia campagna di marketing a livello mondiale per la promozione dello Spritz con Aperol (infatti è diffusa anche la versione con Campari, più dolce, per quanto meno praticata), anche utilizzando corsi per bartender professionisti e con show vari nei bar e nei ritrovi di maggior interesse, con fiumi di Spritz generosamente offerti. Grazie anche a questa promozione, oggi lo Spritz è uno dei cocktail più diffusi all  over the world, e sinceramente, derubricare il suo successo a mera campagna di marketing ben riuscita appare ingeneroso: se tante persone nel mondo bevono Sptriz durante le loro serate con gli amici, non può essere imputato solo a pubblicità o promozione, ma anche a una ricetta vincente, gradevole, in altre parole azzeccata. Attualmente, la ricetta codificata dall'associazione bartender è data da tre parti di Prosecco, due di Aperol e una di soda, il tutto servito con una fetta di arancia, ed è in questa forma che lo Spritz ha letteralmente fatto terra bruciata attorno a sé negli ultimi anni, spodestando di netto, per popolarità e diffusione, cocktail ben più noti e blasonati; per l’umile Spritz, che è anche uno dei cocktail più semplici da preparare (basta un semplice bicchiere e una fetta d’arancia, senza tante acrobazie o attrezzature da bartender professionisti) è una vera vittoria a mani basse,  e dove passa lui non ce n’è per nessuno.
Nemmeno per Negroni o Margarita.

sabato 4 maggio 2019

BURGER KING METTERA' IN VENDITA UN HAMBURGER DI CARNE VEGANA




Finalmente anche vegani e vegetariani potranno entrare in un Burger King e mangiarsi in santa pace il loro bell’hamburger, senza patemi d’animo e senza il devastatne pensiero di essere la causa del genocidio di teneri vitellini per un motivo così bieco come il proprio sostentamento.
Burger King, infatti, una delle più diffuse catene di hamburgherie a livello mondiale, ha stretto proprio in questi giorni un accordo con Impossible Food, una delle maggiori aziende produttrici di “carne vegana2".  Burger King ha infatti fiutato l’aria che tira, verifiato il generale innamoramnto per tutto ciò che è "veg" e ha scommesso su un segmento di domanda, quello di carne “vegana” appunto, che potrebbe tra non molto tempo diventare un rilevantissimo settore mainstream. Non per nulla, dopo una prova che ha avuto moltissimo successo a Saint Louis, nel Missouri, Burger king ha annunciato che immetterà un hamburger a base di “fake meat” in più di 7000 hamburgherie sparse negli USA, e ovviamente c'è da star certi che poco dopo lo stesso farà con gli altri store sparsi ovunque nel mondo.
Un vero boom, quello della carne vegana, tanto che la società ha raggiunto il limite della sua capacità produttiva, e ha dovuto informare i propri clienti di non poter essere in grado, almeno fino a metà maggio, di soddisfare la domanda, scatenando una vera corsa all’approvvigionamento da parte di diversi locali e caffè vegani, che hanno letteralmente dato fondo alle scorte dell’azienda. In Asia, le vendite di Impossible Foods sono addirittura triplicate, e solo nel giro di questi ulitmi mesi.
La società sta ora lavorando per aumentare la capacità produttiva e soddisfare la nuova domanda, e ha anche annunciato che aumenterà il numero di dipendenti nel suo stabilimento californiano di Oakland, portandolo a tre linee di produzione.
D’altronde, anche Beyond Meat, l’altro colosso nella produzione di carne vegetale, ha raggiunto il valore sitmato di un miliardo e mezzo di dollari, mentre entro il 2015 il valore del mercato dei prodotti sostituivi della carne dovrebbe arrivare a 7,5 miliardi; anche Nestlè è entrata nel settore con i suoi nuovi Incredible e Avesome burger.
Un successo dovuto non solo a questioni puramente etiche, ma anche alla percezione di un cibo “trendy e cool”, in pratica un nuovo status symbol alla portata di tutti: non per nulla da numerose incheste è stato rilevato come i nuovi interessi delle fasce di popolazione più agiate non siano più diretti verso i classici beni di lusso ma che si rivolgano invece a un cibo sano, bio e rispettoso dell’ambiente, meglio ancora se alla moda.
E intato i produttori di carne vegana gongolano.

Fonti: Eater